venerdì 17 dicembre 2010
Sabato scorso ricordavo che Augias ("Repubblica", 9/12, p. 34) stravolgeva la lettera di un prete, il quale ora (15/12, p. 32: «Se la Chiesa assolve il suicidio e non l'eutanasia») gli ha ricordato il dovere di giudicare le azioni, mentre giudicare le persone " è Vangelo " spetta solo a Dio: perciò consentire le esequie a un suicida non è approvare suicidio o eutanasia. E Augias? Non vede «differenza tra colui che scrive una lettera di addio e si spara, e il povero Welby che rifiuta di continuare ad essere prigioniero della sua carcassa», e insiste: perché «al primo la Chiesa concede il rito funebre, al secondo no»? La sua risposta è «politica: il diverso clamore delle vicende». Che dire? Vero che «tutto è politica», ma anche che «la politica non è tutto». Perciò la pietà cristiana "copre" il gesto disperato del suicida e su richiesta lo accoglie e affida anche pubblicamente alla misericordia di Dio. Diverso il caso di chi nel suo fine vita e anche dopo morte continua a essere gestito "clamorosamente" da chi se ne serve per ottenere l'eutanasia legale, per l'etica cristiana immorale e contro il bene comune. Il "no" al funerale del povero Welby, la cui morte a differenza da quella della povera Eluana avrebbe anche potuto vedersi come rifiuto dell'accanimento terapeutico, non fu giudizio su lui, ma su chi dopo averlo usato da vivo " cfr. quel «ci serve vivo fino a Natale!» e qui per esempio 13/12/06, 17/12/06, 23/1/07 e 13/9/07) " volle continuare a servirsene "clamorosamente" da morto anche pretendendo una benedizione pubblica non su lui, ma in pratica sul proprio operato tutto "politico"! Caro Augias: non capire può essere umano, non voler capire no!
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