giovedì 2 dicembre 2010
"Repubblica" (30/11, pp. 1 e 20: «La tragedia di Monicelli"». Scrivo appena sentita la voce del presidente Napolitano che esorta al «rispetto» davanti al dramma di un atto suicida, e ancora scosso da un'altra voce, molto nota, che subito dopo ha esaltato il «gesto magnifico»! Ripenso a lunedì sera all'annuncio in tv, nella diretta di "Vieni via con me", della morte, e al silenzio sul modo improvviso e terribile. Martedì e ieri pagine piene di riflessioni sul grande regista «molto solo», «molto depresso" di recente incupito». Ovvio il «rispetto» nostro e di tanti, ma possibile che tra «amici», «ammiratori», «colleghi» e «vicini» nessuno si chieda come mai sia stato lasciato solo, e depresso, addirittura «disperato», e prima dell'irreparabile nessuno abbia saputo stargli più vicino per parlare, oltre all'intelligenza e alla maestria risaputa, anche al suo cuore? Si può dire «rispetto» vedere che uno è solo e disperatamente depresso e non stargli accanto? Ieri in Parlamento la solita esaltazione radicale della «morte dolce» e martedì su "Repubblica" Curzio Maltese pareva soddisfatto nel dare notizia che «Monicelli non credeva nella religione», mentre l'«amico» che ieri ha esaltato il «magnifico gesto» ha anche ammesso che Monicelli «fingeva cinismo, perché non amava la retorica». Basta così, o potrebbe, e dovrebbe, esserci altro? Memoria: da ragazzino ho incontrato due suicidi, uno quasi parente, e in anni recenti due colleghi giornalisti a me cari hanno fatto quel «gesto». Li rispetto, certo, ma ne soffro ancora e me ne rimprovero: non me la sento di scaricare tutto esaltando il «magnifico gesto». Sono proprio anormale?
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