mercoledì 4 febbraio 2009
Non un altro libro sulla Resistenza e sulla catastrofe politica dell'ultima guerra (argomento peraltro inesauribile), ma il resoconto della vita quotidiana in una città devastata dai bombardamenti (Udine) nel periodo gennaio-giugno 1945, dalla prospettiva del vissuto di un bambino.
Protagonista assoluto del romanzo L'alba sulla città, di Aldo Barbina (Santi Quaranta, pagine 176, euro 11) è Michele Feruglio, Michi, un ragazzo di undici anni, sveglio e intraprendente, che attraversa quei mesi con energia e sentimento, legato com'è ai genitori e ai suoi sei fratelli. Il padre, Beniamino, un commercialista che tiene i contatti con la brigata "bianca" Osoppo (quella che subirà la strage comunista di Porzûs), verrà deportato a Dachau e la famiglia si stringerà intorno alla mamma, Anita, vivendo una quotidianità in cui ciascuno si sentirà responsabile di tutti, a cominciare dalla sorella maggiore, Maria, che a quattordici anni deve già agire da donna.
Ma non si pensi a un racconto doloristico o strappacuore: commovente sì, ma anche allegro, perché i bambini hanno tante e tali risorse da riuscire a volgere in bene anche le situazioni più tragiche, e Michi, pur con tanti problemi più grandi di lui, è un ragazzo che fa monellerie come tutti, talvolta anche crudeli o incoscienti come coinvolgere compagnucci e fratellini nel far esplodere proiettili o rudimentali razzi di balistite.
Su tutto, l'amore per il padre, il segreto di abbandonare il proprio piccolo pugno nella mano grande di papà, l'appuntamento di pensarsi intensamente, padre e figlio, alle nove di sera guardando la stella Polare. E rendersi utile, da parte di Michi, sobbarcandosi il trasporto il tre quintali di legna, e addirittura il furtarello di qualche uovo per allestire la cena. Romanzo di intensissimi amori familiari, di papà e mamma fra loro, e dei fratelli che bisticciano per difendere il proprio spazio per fare i compiti sul tavolo allungato, ma che non possono fare a meno gli uni degli altri, tanto che quando il piccolo Andrea, di poco più di un mese, morirà di broncopolmonite, Michi chiederà alla mamma un altro fratellino, «per essere ancora in sette». Senza contare l'apporto indispensabile e anche eroico di Esterina, la domestica che a pieno titolo fa parte della famiglia, disposta a correre rischi gravi per adempiere una missione partigiana. Il babbo tornerà da Dachau emaciato e quasi irriconoscibile, ma la famiglia gli si ricompatterà intorno, in indissolubile slancio d'amore.
Un discorso a parte meriterebbe la religiosità di questi simpatici ed eroici friulani. Tutti, genitori e figli, sono cattolici osservanti, e i loro sacerdoti sono attivi anche come portaordini e organizzatori. Ma si tratta di una religiosità, per così dire, etica, non propriamente teologica. La preghiera è sempre e solo di impetrazione, ed è sacrosantamente giusto tanto più in quei frangenti: ma poi c'è il rischio che, passato il pericolo, la religiosità diventi tradizione identitaria e poi si annacqui irreparabilmente. Dico questo perché il Michi adulto che scrive il romanzo (la narrazione è chiaramente autobiografica) fa una strana confusione sulla liturgia della Messa quando rievoca le sue scrupolose performances di chierichetto. E così accade che da ragazzi si fa il chierichetto e poi, da adulti, non si ha più familiarità con la Messa.
Questa non è una riserva su questo bellissimo romanzo che non deluderà certamente i lettori che auguro numerosissimi. Ma è per dire che la letteratura ha spesso da insegnare alla sociologia: nel caso, in questa forma di religiosità si può individuare una radice della secolarizzazione dilagata.
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