martedì 6 novembre 2018
Probabilmente senza neanche immaginarselo, gli odierni sovranisti d'Europa possono vantare un "padre" illustre e insospettabile, da essi lontano geograficamente e, almeno nella grande maggioranza dei casi, anche come ispirazione politica. Si tratta nientemeno che del democratico americano William Jefferson Clinton, a tutti noto come "Bill", per otto anni presidente degli Stati Uniti e uscito di scena all'inizio del 2001, appena in tempo per schivare la grande tragedia nazionale delle Torri Gemelle.
Arrivato a 72 anni in forma fisica invidiabile, "Cicciobello" Clinton continua oggi a curare attivamente la Fondazione che porta il suo nome e di recente si è cimentato come scrittore di thriller a sfondo politico, in tandem con il celebre best seller a stelle e strisce James Patterson, pubblicando con grande e forse eccessivo successo di critica "Il Presidente è scomparso", che l'autore continua a reclamizzare con assiduità sui social media (vedi il suo ultimo tweet del 21 ottobre).
Ebbene fu proprio lui che quasi un quarto di secolo fa, il 3 maggio 1994, sancì formalmente il criterio dell'"interesse nazionale" come condizione primaria e irrinunciabile per ogni impegno estero degli Usa, in particolare quando si fosse trattato di partecipare a operazioni militari sotto l'egida delle Nazioni Unite o anche in diverse circostanze. Clinton in quell'occasione fece ricorso a uno strumento giuridico simile ai nostri decreti legge, che però rimase segreto ed è stato reso pubblico solo nel 2009, quando divenne noto come "Direttiva 25" (in codice, PDD-25).
La nuova "dottrina" fu adottata all'insaputa del Congresso, dopo lo sfortunato esito della battaglia di Mogadiscio dell'ottobre 1993 che, durante la Missione Onu in Somalia, costò la vita a 18 soldati americani e impressionò a fondo l'opinione pubblica statunitense, spingendo il Presidente alla silenziosa decisione. La quale però segnava una svolta di grande portata rispetto al progetto del "Nuovo ordine internazionale", delineato dai suoi predecessori Reagan e Bush padre insieme al russo Gorbaciov, che segnava simbolicamente la fine della Guerra fredda.
La premessa strategica di quella che oltre vent'anni dopo Donald Trump avrebbe sintetizzato nello slogan America first (prima l'America) fu subito sperimentata durante il trascuratissimo genocidio in Rwanda e, in senso opposto, durante i sanguinosi conflitti nei Balcani, che videro gli Stati Uniti attivamente coinvolti. Ma soprattutto, malgrado la base giuridica della svolta fosse coperta dal segreto presidenziale, le cancellerie occidentali più attente ne avevano ormai colto con chiarezza la concreta attuazione.
Ecco quindi che il "virus" dell'interesse nazionale tornava a insinuarsi e a diffondersi anche tra gli Stati legati da forti alleanze e patti di collaborazione, che in teoria avrebbero dovuto escludere iniziative unilaterali in campo militare. La prova più plateale è arrivata con l'attacco anglo-franco-americano alla Libia di Gheddafi, di cui tuttora non si colgono le ragioni e i vantaggi per gli altri partners europei e occidentali, mentre si comprendono benissimo i vantaggi sperati dai promotori in campo petrolifero e geopolitico.
Se a questo scenario si aggiungono il compimento della Brexit e i perduranti ostacoli che i Paesi Ue più forti e finanziariamente più "in forma" pongono a riforme realmente innovative e solidali (vedi gli stop e gli indugi su Web tax e Tobin tax, oltre all'assenza di politica comune in campo fiscale che incoraggia i "paradisi" locali), si capisce la facilità con la quale i nuovi sovranisti stanno mietendo successi elettorali a ripetizione.
Il guaio è che questi epigoni inconsapevoli di Clinton e successori sono affetti anche da miopia acuta. Non si rendono conto che la deriva dell'"ognuno per sé" danneggia in primo luogo chi ha poche risorse e minore forza contrattuale. Dall'America dovrebbero piuttosto assumere e applicare il motto latino che, dal 1776, figura nello stemma di Stato: E pluribus unum, da molti a uno solo.
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