martedì 5 aprile 2022
Pochi uomini di governo europei hanno avuto il coraggio, in queste settimane di sconvolgimenti bellici, di parlare con franchezza ai loro concittadini su quanto ci aspetta come popoli dell'Unione nei prossimi anni. Molti hanno accennato, più o meno velatamente, a svolte profonde, alla necessità di adeguare le nostre economie a una fase di incertezza, forse di rinunce, destinata a durare. Anche le ultime stime sulla crescita del Pil nell'area dei Ventisette parlano, in modo generico, di un taglio, talvolta di dimezzamento, rispetto alle previsioni "anteguerra" di un 4 per cento di aumento per il 2022.
La verità è che l'incertezza sulle sorti e sulla durata della guerra, che si combatte alle nostre porte di casa, rende precario qualsiasi tentativo di spingere lo sguardo oltre l'immediato futuro. Sembrano fare eccezione, invece, le espressioni nette e sincere usate nei giorni scorsi dal vicecancelliere tedesco Robert Habeck. L'esponente del partito dei Verdi, che è anche ministro dell'economia e del clima, ha detto alla rete tv Zdf che dopo l'attacco russo a Kiev tutti «diventeremo più poveri», che bisogna lavorare duramente «per assicurarci di poter sopravvivere a una situazione difficile», che davanti allo shock in arrivo «la domanda è come lo distribuiamo in modo equo».
Un linguaggio, verrebbe da dire, in stile Winston Churchill, anche se temperato dalla consapevolezza che per noi il prezzo da pagare «è abbastanza piccolo rispetto alla sofferenza in Ucraina». Ma è comunque un bene che qualcuno, nell'ambito della Ue, eviti le mezze misure nel fotografare la situazione e i suoi probabili sviluppi. Sarebbe anzi meglio se l'esempio di Habeck fosse seguito dall'intero establishment di Bruxelles e se agli europei si cominciasse a indicare strade diverse da quelle fin qui percorse. Lo stesso programma Next Generation Eu, quello varato per riprenderci dalla pandemia, andrebbe ripreso in esame, per concordare i necessari adeguamenti e le opportune correzioni.
In base a quali criteri? A quelli impliciti nelle parole impiegate dal ministro di Berlino. Parlare di «impoverimento» significa in concreto accettare l'idea di un passo indietro, quanto meno di un deciso rallentamento, nella corsa ad ogni costo a produrre, a consumare, ad arricchirsi, sempre a spese del resto del mondo. E non converrebbe verificare se anche la politica di difesa comune, oggi tanto invocata, richieda per forza un aumento delle spese militari, o non piuttosto uno sforzo di coordinamento e integrazione?

Non si tratta di teorizzare la "decrescita felice", semmai di riscoprire la pratica della sobrietà, che la globalizzazione e il dominio della finanza speculativa hanno relegato fra i rottami culturali del passato. Per usare le parole di Papa Francesco a Malta, è l'ora di denunciare e anche di rinunciare alla «falsa prosperità dettata dal profitto, dai bisogni indotti dal consumismo, oltre che al diritto di avere qualsiasi diritto». E quando il numero due del governo tedesco parla di ripartire «in modo equo» i sacrifici in vista, a che cosa si riferisce, se non alla giustizia sociale e alla solidarietà? Un principio ben radicato nelle "sacre tavole" dell'Unione (da ultimo, il Trattato sul funzionamento della Ue, articolo 9) e da declinare sia all'interno dei confini comuni sia verso il resto del mondo. È l'unica via che la storia insegna, a colpi di lutti e tragedie inenarrabili, per garantire pace e collaborazione tra i popoli. Come europei dovremmo averlo capito.
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