mercoledì 11 dicembre 2013
Negli ultimi tempi mi perseguita, di tanto in tanto, un'immagine letteraria. È di Petronio Arbitro ed è citata da uno dei poeti che amo di più, Thomas S. Eliot, in testa a uno dei suoi poemi più belli. La Sibilla Cumana, tremendamente invecchiata e rimpicciolita, viene mostrata alla gente chiusa dentro un'ampolla; e ai dileggi dei bambini, che in una sorta di gioco crudele le domandano cosa vuole, risponde (in greco): «Voglio morire». Le sibille, profetesse ispirate da un dio, sono personaggi della mitologia, della letteratura classica e anche della realtà di certi tempi lontani. Poi la grande pittura le ha raffigurate: da Andrea del Castagno a Michelangelo. Nel confronto con questa lunga storia acquista un ulteriore senso l'invenzione di Petronio, fatta sua da Eliot (che certo conosceva la maestosa Sibilla Cumana della Cappella Sistina): risultano ancor più pietose la dissacrazione e la decadenza d'una creatura che è stata quasi divina; e più terribile la sua disperazione: ridotta com'è a un povero uccello spennato e senz'ali, esposto in gabbia a tutti gli scherni. Ma insomma a me cosa ispira quest'immagine, che mi si riaffaccia quasi mio malgrado e da cui fatico a liberarmi? Un sentimento di immedesimazione? O, alla fine, di rifiuto? (E il rifiuto significa: mai come la Sibilla).
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