giovedì 23 aprile 2020
Quando morì papa Giovanni Paolo II, mi sono recato a Roma, per vederlo alla fine del suo cammino su questa Terra, per dargli un ultimo saluto. Dopo ore di attesa, a gruppi scaglionati, ci era dato il permesso di compiere uno sbrigativo percorso attorno alla sua salma. Quello era l'attimo sacro in cui era data a chiunque l'esperienza di incontrare per l'ultima volta una delle figure più significative del suo, e del nostro, tempo. Ebbene, in un istante, durante quel breve tragitto che sarebbe dovuto essere pregno di mistero e di raccoglimento, in una sorta di esperienza pura e ineffabile, così umanamente naturale, ho staccato gli occhi dalla salma del futuro Santo e ho guardato gli altri che, attorno a me, gli giravano attorno. Lì, lo choc. Ero l'unico che non stava riprendendo con il cellulare la salma. Ossia, nessuno stava guardando il Papa. Lasciava che lo guardassero le macchine, delegava loro l'esperienza così fatalmente memorabile da diventare immediatamente memoria. Perché non c'è più nessuno ad attivarla. E una memoria che è solo archivio non è memoria. Perché non c'è nessuno che abbia né facoltà né motivo di consultarla in quanto tale. La digitalizzazione ha preso il posto del tempo e ne ha fatto un surrogato autoreferenziale. Non c'è più, in questa storia esiziale, nessun occhio che guarda, nessuna coscienza a serbarne il senso profondo.
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