martedì 16 giugno 2020
Il 9 maggio scorso, tra le numerose iniziative per celebrare il 70° anniversario della "Dichiarazione Schuman", storico momento di avvio del processo di unificazione europea, è passato inosservato, si può ben dire purtroppo, un evento online organizzato da Europa Nostra e dalla Fondazione Europeana. Si è trattato di un affollatissimo seminario web (o webinar), che ha registrato il "tutto esaurito" con mille persone collegate via internet da 60 Paesi, per lanciare la richiesta di un "new deal" europeo in favore dei beni culturali.
Lo spessore dell'appuntamento e l'ambizione nutrita emergeva dal titolo prescelto, "Patrimonio culturale: un potente catalizzatore per il futuro dell'Europa". Il presupposto implicito, accolto dai partecipanti, è che l'apporto delle ricchezze culturali prodotte dai popoli del continente durante i secoli, ma anche quello delle singole tradizioni nazionali e delle differenti caratteristiche paesaggistiche e ambientali, è indispensabile per garantire, dopo la tempesta del coronavirus, un rilancio durevole della costruzione unitaria. E questo sia per il blocco dei 27 stati membri della Ue sia per le altre nazioni desiderose di
collaborare con esso a un futuro di pace e di progresso condiviso.
Negli stessi giorni in cui dai vertici di Bruxelles si stava elaborando il maxi-piano a sostegno della ripresa economica e sociale, battezzato Next generation fund e dotato in prospettiva di 750 miliardi di euro, veniva dunque lanciato un "manifesto" parallelo per valorizzare il forte contributo che il patrimonio culturale può offrire alla causa. E non certo con lo scopo di indicare qualche singola voce di spesa alla quale garantire fondi, ma per dare solidità e speranza di durata alle future tappe dell'integrazione che lo sforzo finanziario deve sostenere.
Senza un approccio che tenga conto delle specificità culturali delle singole nazioni e dell'Unione nel suo insieme, è infatti difficile immaginare che la sperata "recovery" poggi su fondamenta durevoli. «La storia ci ha insegnato – ha detto Snenska Quaedvlieg-Mihailovic, l'attivissima segretaria generale serbo-olandese di Europa Nostra, in un
video messaggio ad AgCult in vista del webinar – che la promozione del nostro patrimonio può essere un vero e proprio atto di rinascita sociale ed economica, dopo un evento traumatico come la grave crisi odierna". Ragion per cui la valorizzazione e il sostegno culturali vanno "debitamente inclusi sia nell'immediata risposta dell'Unione europea e dei singoli Paesi alla crisi, sia nei piani di ripresa a lungo termine».
Dall'esperienza del covid-19, che non ha risparmiato nessuna area del continente, emerge così l'esigenza di un vero e proprio "cultural deal", da affiancare e integrare se necessario con il più conosciuto e propagandato "green deal", che prende in considerazione solo la dimensione ambientale. E ciò non solo perché la costruzione europea non può poggiare le sue fondamenta soltanto sull'interesse economico e neppure su quello strategico e geopolitico. La tante volte citata frase del "padre fondatore" Jean Monnet in punto di morte («Se dovessi rifare tutto quanto, comincerei dalla cultura») è più che sufficiente a darne prova.
La pandemia, più che altro, ha dato a tutti gli europei una straordinaria lezione di umiltà, anzitutto proprio sul terreno culturale. Ci ha ricordato che le pretese di autosufficienza non portano mai lontano, così come la tentazione di isolarsi o peggio ancora di sperare nella propria salvezza a discapito degli altri. Il socratico "estì den gnothizo" (so di non sapere) è precisamente una delle radici di quel patrimonio comune accumulato in quasi trenta secoli, da salvaguardare non meno del Pil o dei listini di Borsa.
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