martedì 29 maggio 2012
«Da Pacelli a Ratzinger, la lunga crisi della Chiesa». Titolo domenica ("Repubblica", pp. 1 e 27) per un Eugenio Scalfari "buono", ma professionalmente e storicamente squilibrato. "Buono" perché la Chiesa potrebbe dirsi in «crisi» da duemila anni: Giuda e Pietro, entrambi "traditori", sebbene in modo e con esito molto diverso tra loro, erano lì dall'inizio. E non basta: per caso stesso giorno sul "Corsera" (p. 27) Paolo Isotta ricorda il «barbaro Attila»… Altro che crisi allora (452)! E tu ricordi Alarico che distrugge Roma (410), e Papa Vigilio prigioniero per anni a Costantinopoli a metà del V secolo, e il "Sacco di Roma" (1527), e Pio VI arrestato, deportato da Napoleone e morto in catene nel 1799, e Pio VII anche lui subito prigioniero… Ma davvero e proprio «da Pacelli a Ratzinger» è tutta e solo «crisi»? Eppure tanti, forse tutti, anche su "Repubblica" hanno scritto che mai come in certi momenti di questi ultimi 60 anni l'autorevolezza morale del Papato è stata così universalmente riconosciuta... Macché! Parentesi: ieri ("Repubblica, p. 1) Augias si butta su Bonifacio VIII e Alessandro VI Borgia, prede di routine per le sue storiche e ideali delusioni perenni. Tornando a Scalfari: "squilibrio" professionale e storico in tre perle. Sicuro p. es. che Papa Giovanni «richiamò Montini alla Segreteria di Stato»? Non risulta. E che «il Vaticano I elevò a dogma la verginità di Maria»? Non risulta. E soprattutto, in punta di pura cronaca attuale, sicuro della «disperazione di Papa Razinger»? Proprio sabato, forse mentre Scalfari scriveva il suo sermone, a una folla di credenti che festeggiava in anticipo la Pentecoste, lui ricordava sereno che «la casa fondata sulla roccia» non crolla. Già: «la speranza non delude!» (Rom. 5, 5), e la cosa ha proprio a che vedere con la Pentecoste.
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