mercoledì 10 agosto 2016
Luca Serianni insegna Storia della Lingua italiana alla Sapienza, è autore di una celebre grammatica e ha anche aggiornato il prezioso Dizionario Devoto-Oli. Ai suoi meriti aggiunge un piccolo libro, intitolato semplicemente Parola (il Mulino, pp. 160, euro 13), per analizzare - senza tecnicismi - l'unità fondamentale del discorso. Per esempio: esistono davvero i sinonimi? Per Serianni, la risposta è solo no. «Veri sinonimi, privi di sfumature di significato e non condizionati dal registro d'uso, possono essere le poche varianti formali che siano rimaste ancora in circolazione: tra/fra, pronuncia/pronunzia». Sono sinonimi dimenticare e scordare? Serianni considera fallace la motivazione libresca che ne dà il Tommaseo, nel suo Dizionario dei sinonimi: "Scordare", spiegava, «è più di dimenticare, perché ciò che si ha veramente in cuore, non si dimentica» (scordare deriva dal latino parlato ex-cordare, formato da cor, cordis, cuore). Per Serianni, invece, scordare è semplicemente un sinonimo avvertito come più colloquiale, rispetto a dimenticare che è la voce fondamentale per esprimere quel certo significato.L'uso offre nette demarcazioni in casi come gatto/micio o ventre/pancia, senza considerare il linguaggio tecnico: regione epigastrica è sinonimo di bocca dello stomaco, ma la prima espressione figurerà in un referto medico, la seconda sarà usata da un profano. Non va dimenticato, e Serianni lo ricorda bene, che prima vengono le cose, poi le parole. I tentativi di creare parole ex nihilo hanno esiti prevalentemente giocosi, come il sarchiapone di un famoso sketch di Walter Chiari (1958) o le poesie metasemantiche sperimentate dall'etnologo Fosco Maraini, padre della Dacia scrittrice: "Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta, / ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s'archipatta" (su Youtube si può ascoltare l'intero sonetto nella lettura di Gigi Proietti). Pur con parole inventate, ma allusive, qui si intuisce che il soggetto è comunque un animale, una specie di sarchiapone con abitudini proprie, ma la cosa finisce lì.Recentemente si è parlato dell'aggettivo petaloso, inventato da un ragazzino di terza elementare, di nome Matteo, in una ricerca sui fiori. L'aggettivo piacque alla maestra che ne informò l'Accademia della Crusca (della quale fa parte anche Serianni, che però spero estraneo al caso) ricevendone elogi. Personalmente, mi pare un aggettivo inadatto a un fiore, per un'assonanza che emana un odore sgradevole, e spero proprio che non entri nell'uso.Le parole invecchiano, cambiano di significato, altre se ne aggiungono. L'etimologia è di grande aiuto, pur con diverse stranezze: perché si dice sarto, ma sartoria (da sartore) e non sartìa? (i cavi delle attrezzature navali sono sàrtie, con l'accento sulla "a", non sartìe). E perché si dice città, ma cittadino, dall'arcaico cittade? Misteri della lingua, nella quale l'uso ha (quasi) sempre l'ultima parola.Serianni, oltre che di parole, si occupa anche di paroline, parolette, parolone, parolacce (purtroppo sempre più usate da scrittori e giornalisti). Fra i derivati c'è anche paroliere, diffusa negli anni Cinquanta sulla scia dei successi di musica leggera. E come, nel melodramma l'autore del libretto era spesso oscurato dal musicista (la Traviata è di Verdi, il librettista Francesco Maria Piave è dimenticato), così la canzone Vola colomba (1952) è passata alla storia col nome della cantante, Nilla Pizzi (mi piace che Serianni ricordi questa troppo rapidamente dimenticata cantante), e non col nome del musicista, Carlo Concina, e neppure di quello del paroliere Bixio Cherubini.Luca Serianni esemplifica con rispettosa pertinenza anche dalla Sacra Scrittura, benché accomuni (come troppo spesso si usa) ebraismo, cristianesimo e islàm come "Religioni del libro", espressione ambigua per designare il cristianesimo che è religione incentrata su Cristo, Verbo incarnato, e non sul Libro, pur importantissimo e venerato.
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