domenica 28 giugno 2020
Ci fa paura, il cambiamento. Sempre e comunque. A meno che non venga truccato da incremento di qualcosa che ci ha dato piacere nel passato, o che ci gratifica nel presente. In questo senso, il concetto reso popolare dal film di Visconti (tutto devo cambiare perché tutto resti uguale, valida anche nella variante inversa, perché l'ordine dei fattori qui non cambia), il proverbiale "Gattopardo", si apre in questi mesi a uno spiraglio di "rivelazione" (apocalisse) che tramuta la paura in terrore. Forse qualcuno ha notato che da un po' non avvengono atti terroristici. Perché lo abbiamo introiettato. Lo abbiamo introiettato e nascosto dentro di noi, in un dentro specifico (quella che Edoardo Sanguineti chiamava «palus putredinis»). Non è il caso che la frase che più ha caratterizzato il papato di san Giovanni Paolo II sia «non abbiate paura». Ma la paura rifugge dagli imperativi. Estremamente superba, ci domina da sempre. Hobbes diceva che proprio la paura dell'imminenza (ma anche della sua trascendenza sempre pronta a liberarsi nel mondo) è del resto l'arma più forte del potere. La condizione di omeostasi è quella che più rincorriamo. Ma la morte ci ricorda che dobbiamo vivere la vita per quello che è, e non studiarne e approvarne o paventarne la nostra interpretazione, come scrisse in un secco, quasi ironico "tweet" san Francesco a sant'Antonio da Padova.
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