venerdì 1 luglio 2016
Quando mi sono accinto a scrivere questi pezzi, ho cercato di immaginarne una struttura generale; mi dicevo, ad esempio, che una citazione sarebbe stata un po' miserella, tre un po' troppo saccenti, un paio la misura giusta. Una verso l'inizio e una verso i due terzi della parabola narrativa. Il menù comprendeva che qua e là facesse capolino la trascendenza. Mi ero accorto, infatti, che l'anima si manifesta a volte quando ci sorprendiamo a canticchiare il non si sa che cosa, né perché. Certo c'è l'idea più ricorrente dell'anima intesa come energia ma, devo dire, che questa visione attira poco la mia sensibilità. Ma torniamo alle citazioni. Di che? Di chi? In una cultura che è oramai un melting pot, è meglio citare i Mapuche dell'America australe o le tradizioni del sud Sudan? Ed ancora, gli Aborigeni australiani o i Lapponi del grande nord? Pare che negli Stati Uniti, giusto per dirla, non esista più un canone culturale univoco nelle università stesse. Senza citazioni, parrebbe di sdoganare l'ignoranza. Eppure, c'è la possibilità che la citazione sia un monile salottiero di copertura del vuoto. Opto allora per la riflessione sull'esperienza diretta e sull'assunzione di una propria responsabilità, come a dire il metterci la faccia. Che cosa avrebbe fatto Borges al mio posto? Non lo so.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: