martedì 21 gennaio 2014
Povero Balo. Sarà anche una melamarcia - come dice il Cavaliere - ma lui nelle occasioni topiche del Milan c'è sempre: un gol a Sassuolo per l'addio ad Allegri, un gol a San Siro per il benvenuto a Seedorf. Senza quel successo strappato nel finale al buon Verona grazie al “dolce Balotelli” mi dite cos'avrebbero scritto e detto i critici pronti a salutare il New Deal di Seedorf con accenti encomiastici? Io di nuovo ho visto poco, e lo dico da ammiratore delle qualità tecniche e umane di Clarence, ben sapendo che al debutto in una professione è più facile sbagliare che far centro; anzi, sposo in pieno l'osservazione della regina della Domenica Sportiva, Paola Ferrari, che ha sottolineato solo l'eleganza del Professore: «Come sta bene con quel cappotto!». Già. Seedorf ha uno stile impareggiabile, sul campo e in ogni campo, e subito ha posto mano non tanto a una rivoluzione tattica ma - penso - a una rieducazione globale della banda rossonera pienamente sfuggita dal governo di un Allegri sempre più frastornato dalle vicende societarie che non toccano, invece, il nuovo tecnico: lui, beato, parla con il Grande Capo, al quale lo legano peraltro affinità elettive (non elettorali) riscontrabili già in Sacchi e Capello. Colto e brillante, atleta formidabile e uomo di mondo, Clarence ha immediatamente spiazzato gli agiografi del 4-2-3-1 (o 4-3-2-1? aiutatemi) tirando fuori dalla manica l'asso (paradossalmente) mancante nel gioco milanista: l'allegria. Per il resto, registro il possesso palla alla tiki-taka ma soprattutto l'andamento a valzer lento - quindi senza piroette né slanci turbinosi - riferibile a un calcio Old Style che al momento ha un senso: riportare il gregge smarrito ai fondamentali, ai movimenti coordinati, convincerlo all'abbandono degli spunti anarcoidi spesso registrati senza che l'arrivo di Kakà - primo tentativo gallianesco di portare ordine - riuscisse nell'intento di dare anche cervello ai possessori di piedi spesso buoni. Proporrei forti iniezioni di Allegria - doping psicologico, quindi ammesso - anche e soprattutto all'Inter di Mazzarri, arrivato a Milano ch'era Dottore (in Scienze Pedatorie), oggi modesto, affaticato e amareggiato Infermiere. A Napoli, in simile contesto, avrebbero scomodato il miracoloso San Gennaro; a Milano, San Siro, pur avendo famigliarità coi miracoli (portava i pani e i pesci per sfamare il popolo di Gesù) è stato ampiamente laicizzato e calcistizzato («L'Inter è la mia religione, San Siro la mia chiesa» - disse Xavier Zanetti): nel ribattezzato “Meazza” non c'è il fuoco partenopeo, non si canta «o' surdato 'nnamorato» ma «Tohir caccia 'l danè» e c'è chi è pronto - senza pietà - a far confronti con l'Inter del reietto Stramaccioni. In un clima siffatto - e senza il becco d'un quattrino - Mazzarri ha cominciato a pensare al futuro partendo, naturalmente, dal passato, dai giorni in cui si credette all'altezza della Beneamata come tecnico - e nessuno lo discute - senza chiedersi se avrebbe quagliato anche con la Pazza Inter divoratrice di uomini. Lo ha ricordato domenica Gasperini, sollecitato da una vendicativa vittoria a condannare chi a Milano lo derise e umiliò. Mazzarri ha mangiato il panettone, non gli negheranno la colomba: ma a fine stagione già s'annuncia l'Anno Sabbatico che a Napoli fu una burla, a Milano chissà...
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