giovedì 15 dicembre 2016
Riconoscere e riconoscersi è l'evento essenziale dell'esistenza. Cardine di ogni fede, religiosa, politica, sociale che sia. Ancor prima, cardine di ogni rapporto umano. Recentemente ne ho avuto un segno nel mio studio, attraverso lo sguardo comune, mio e dei miei ospiti verso le opere. Ho sempre pensato che un'opera è terza rispetto a chi la genera e a chi con lei si relaziona. Un'opera è una tangenza che ti trova, ti intercetta. Si serve della tua corporeità per manifestarsi e lasciare una testimonianza attraverso una struttura che cattura una particella di vita, all'interno della quale potrà vibrare per sempre.
Ecco perché un'opera d'arte autentica non è una cartolina ricordo. Non è celebrazione del passato, ma presenza viva, che permette la relazione con una forza attuale, con-temporanea, diretta.
A tutti gli effetti è presenza. E la presenza è la condizione necessaria per cui si verifica un incontro.
Presente e terza.
È andata così. Arriva nel mio studio una persona che non conoscevo, portato da amici già “esperti” del luogo. Mentre svolgevamo il rito della visione delle opere un evento mi ha profondamente colpito, di cui avevo già provato l'esistenza ma che per una serie di ragioni in questo caso specifico si è manifestato più potente, intenso, cristallino. Probabilmente anche per la intensità della sensibilità di chi osservava. L'opera era lì, e io avevo ben presente come era nata, la radicalità delle sensazioni che l'ha generata. Ma l'opera era lì, staccata da me, reciso da tempo il cordone ombelicale, come una presenza esterna e interna al tempo stesso, che mi parlava di un miracolo di cui hai chiara la attualità per la tua storia, ma su cui non hai controllo. Perché è altro da te. Ho chiaramente riconosciuto nel mio ospite lo stesso sguardo, la stessa intensità. Lui, che della storia di come era nata quell'opera non sapeva nulla, era entrato in contatto profondo, forse anche più profondo del mio, con quella testimonianza viva del concretizzarsi di una presenza. Eravamo io e lui con l'opera, e siamo entrati in contatto senza conoscerci nei dettagli ma catturando un fulcro fondamentale attraverso il riconoscimento di quella sorprendente terza cosa.
Ho realizzato che ci si incontra veramente non perché si conoscono i particolari delle proprie vite, o perché si fanno cene insieme, o perché il tempo ha consolidato qualcosa. Ci si incontra grazie al miracolo del riconoscimento di un accadimento vivo e presente che permette di riconoscersi reciprocamente. È come se l'incontro avesse bisogno di un catalizzatore. Che non è facile trovare, o che ti trovi, ma che quando c'è supera ogni barriera di tempo e di spazio, ogni barriera di diversità, ogni diffidenza o calcolo.
Credo sia una categoria essenziale. Si parla di incontro in termini troppo autoreferenziali. Si pensa che gli altri debbano incontrare noi, che debbano avvicinarsi a noi. Ma non è così, e d'altro canto noi possiamo provare ad avvicinarci agli altri senza riuscirci, neanche in un contatto costante 24 ore su 24. Ci deve essere un evento altro che permetta il salto della incomunicabilità, della impossibilità di darsi veramente a partire dalla razionalità dei nostri anche comprensibili egoismi. La capacità dell'identità di perdersi nell'altro, anche solo per un momento, viene dal riconoscimento della testimonianza di un terzo presente che riesce ad annullare le distanze.
Questo richiede fiducia, disponibilità, per creare le condizioni che forse porteranno a essere trovati dal terzo che fa delle storie una storia, che fa dei singoli accadimenti un progetto; che, solo, può liberarci dalla ineludibile e faticosa esperienza della solitudine di un percorso diversamente destinato a incontrare solo se stesso.
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