giovedì 3 giugno 2021
Una buona percentuale dei suicidi in Europa ha come causa il mobbing. Si tratta spesso di giovani travolti dal mondo del lavoro, umiliati, ricattati, soggetti ad abusi di vario tipo. Resistono fino all'esasperazione pur di salvare il posto di lavoro e poi fanno corto circuito. Avviene soprattutto laddove si presuppone che il lavoro si svolga nell'ambito di una dimensione intellettuale: università, istituzioni artistiche, ricerca, musei. All'estero è più facile che i giovani si rendano conto della non eticità dei comportamenti a cui si sottopongono. In Italia il lavoro intellettuale è ancora concepito come un privilegio per cui pagare pesanti costi psicologici.
Un giovane ricercatore all'università sa che, se ha vinto un posto per tre anni è "sorvegliato" dal professore da cui dipende e che molto facilmente se alza troppo la testa, se scrive qualcosa di originale, il contratto non verrà rinnovato. Chiaro che a queste condizioni il panorama delle produzioni intellettuali in Italia sia scarso di novità e di coraggio. Ai giovani non viene concesso di rinnovare perché diventano pericolosi per il sistema dentro cui vorrebbero lavorare. Se Levi-Strauss fosse vivo oggi farebbe le sue ricerche sulle strutture della parentela non tra gli indiani Nambimkwara, ma all'università, dove abbondano cognomi simili, legami agnatici, cugini incrociati e altro. Accade dappertutto, ma in Italia non fa scandalo a (quasi) nessuno. I giovani devono starsene buoni. Ogni tanto nasce una discrepanza. Se qualche giovane stagista coreano o taiwanese con tanto di MBA si ritrova mobbizzato in una gloriosa istituzione familiare legata all'arte, può accadere che se ne stupisca a tal punto da denunciare la cosa e fare scoppiare un caso. Essere chiamati dal superiore in una istituzione culturale "poco intelligente" pur ai disciplinati orientali sembra un'eredità di un mondo selvaggio e privo di regole. E si chiama mobbing. In Italia siamo talmente abituati ai valori del feudalesimo capitalista – quella vicenda molto folclorica per cui un padre imprenditore lascia i propri soldi ai figli per nutrire una istituzione culturale o artistica – da non farci più caso. Siamo felici che i "ricchi" usino una parte dei soldi ereditati per promuovere la cultura. Salvo a ignorare che c'è uno statuto dei lavoratori che si applica anche ai lavoratori della cultura (e dello spettacolo).
Non vorrei invocare un MeToo per il mondo delle istituzioni culturali, ma sicuramente una buona drizzata etica andrebbe fatta. Quello che accade all'interno dei dipartimenti di università pubbliche o private, in fondazioni di vario tipo, dentro a musei, e al mondo degli operatori culturali rimane spesso troppo oscuro e poco controllabile. Chi ha il coraggio di denunciare rischia l'ostracismo a vita. Ah, ho dimenticato le case editrici, coraggiose istituzioni, ma anche qui sorrette da una logica ancestrale per cui si pubblicano sempre gli stessi autori e agli stessi, quando imbroccano un libro, viene chiesto di riscrivere lo stesso.
Il problema non è solo etico, di scorrettezza di un importantissimo settore della società, ma si tratta delle occasioni di rinnovamento perse, di un Paese vecchio che non solo non fa bambini, ma molto peggio "non fa giovani". Nel senso che li fa invecchiare anzitempo nel ricatto del posto di lavoro e nel ricatto del doversi adeguare al vecchio e al conosciuto.
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