venerdì 8 agosto 2014
Sul mio telefonino ho scorso più volte le immagini del Molinetto della Croda, così come l'avevo visto due mesi fa, una domenica di giugno con gli amici di Santa Lucia del Piave che mi han voluto portare nei luoghi più belli delle zone del Prosecco. Ma qui a Refrontolo il vino è il Marzemino dolce, che i volontari della Pro Loco mi hanno servito con partecipazione e orgoglio, appena raggiunto il cuore del Molinetto.Un'oasi di pace, che il 2 agosto è diventata tragedia, con 4 morti e diversi feriti e una bomba mediatica, nei giorni a seguire, che ha raggiunto anche punte di ridicolo. Come la ricerca del capro espiatorio, che con certezza, martedì, erano le vigne di glera, funzionali alla produzione di Prosecco. E il marzemino ce lo siamo dimenticato? A Refrontolo il vino si fa dal 1400, ci sono 14 aziende vitivinicole per un'area di 2.500 ettari complessivi. Però ci vuole comunque un capro che ci faccia andare in ferie tranquilli. E se il flatus voci parte da una fazione politica che non perde occasione per attaccarne un'altra, poco importa: il Prosecco suona comunque bene come scusa per il disastro. Il giorno dopo, tuttavia, i teoremi frizzanti si erano già sgonfiati: la colpa è solo di un'eccezionale precipitazione di acqua, hanno detto i 4 geologi incaricati. E l'imputato torna ad essere l'acqua e non il vino, anche se era bello, per qualcuno, pensare di metter sotto accusa un sistema che sta avendo successo nel mondo. Nei casi del genere, il capro espiatorio più facile, che non fa neppure più notizia, è il degrado ambientale, dovuto alla scomparsa degli insediamenti agricoli e rurali. Che è esattamente il contrario di quello che accade in queste zone, dove la presenza contadina è da sempre una mano sulla gestione del territorio.Per questo è ridicolo colpevolizzare i viticoltori, e non quella sciocca invenzione del patto di stabilità, che non guarda in faccia a urgenze e emergenze, ma taglia e blocca. La gente di queste terre, poi, è particolarmente attiva, tanto che a San Pietro di Feletto c'è una pieve a cui era particolarmente legato papa Roncalli, dedicata al "Cristo della domenica". E il Cristo è raffigurato con tante frecce sul corpo che corrispondono ai dispiaceri gli si dà quando non si santifica la festa. La pieve è dell'anno 1.000, di età longobarda, e quel Cristo si rivolge a un popolo tutt'altro che fannullone. Certo rimane vivo un grande tema: la fragilità del nostro territorio, reso ancor più vulnerabile dall'abbandono delle aree collinari e montane. E non sono certo i turisti che si occuperanno della manutenzione ordinaria del territorio, sarà invece il recupero di una cultura che fino a vent'anni fa era radicata nel popolo. Lo stesso che viene mortificato come falso capro espiatorio, lo stesso che, con una nuova agricoltura, potrà farci riconquistare la coscienza di ciò che vale nel nostro Paese.
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