martedì 30 aprile 2019
Il problema vero della Juventus non è vincere e giocar bene insieme, è piuttosto la responsabilità del campionato che ci lascia, finita la cavalcata su una gamba sola che le è costata l'ennesima Champions. Fabio Capello inventò la formula «campionato poco allenante» per giustificare i flop europei dell'Intensissimo Conte, il quale fu l'unico a non gradire la scusa: i perdenti “non allenanti” tacquero. E ancora la Juve è riuscita ad azzerare con l'ottavo scudetto di fila (roba da Rosenborg, quella squadrotta norvegese che riuscì ad umiliare proprio in Champions il Milan di Sacchi) le ambizioni delle presunte grandi di un tempo e a relegarle in un torneo minore detto Zona Champions dove non coglieranno Tituli ma un po' di milioni da buttare (letteralmente) sul mercato. È come un campionato falsificato, questo, e la reazione dei condannati non è un'ammissione di colpa ma una chiamata di corre'o. Lascio perdere il Napoli, da dieci anni consecutivi presente in Europa appena rientrato in A dopo lunghi anni bui nelle serie minori, senza produrre investimenti “popolari” quanto suicidi, il tutto valido come e più di uno scudetto. Lascio perdere anche la Roma, straniata da eventi commerciali (nuovo stadio) e sentimentali (Totti eterno) che fanno risalire all'enorme fatica fatta da Capello per vincere uno scudetto, e ancora oggi incapace di darsi un tecnico deciso, competente, autorevole ispirato solo dalla voglia di lavorare e costruire. Sono invece palesemente complici nell'imbarbarimento tecnico del torneo le squadre di Milano, le eterne rivali “stellate” come creature della Guida Michelin, trasformatesi - quando va bene - in damigelle d'onore della Vecchia Signora: l'Inter Cinese cui si attribuiscono ricchezze esotiche non produttive tanta è l'abitudine a perseguire antichi vizi autolesionisti; il Milan Finanza le cui avventure sono percepibili solo leggendo Il Sole 24 ore, quelle del campo risultando inferiori alla peggior gestione di Duina e Colombo. Ebbene, in tutto questo ci si ritrova nel bel mezzo di un kafkiano Processo a Max Allegri che vince ma non convince - antica formula - perché non diverte, mentre quei cinici guduriosi amanti della Gleba se la spassano fino alla noia, fino a una ribellione interna che gli è consentita perché loro sono gli otto-scudetti-otto e le sette-sconfitte-sette in Coppa dei Campioni (così la chiamo perché la Juve la gioca sempre da Campione d'Italia). La rissa fra l'accusatore Adani (Lele chi?) esteta a senso unico e Allegri parrebbe la ripetizione dell'antica, orgogliosa e colta lotta fra il calcio “all'italiana” di Rocco e Brera e la “scuola napoletana” di Vinicio e Palumbo: ma ne è solo un ridicolo surrogato. Soprattutto perché Allegri c'e' cascato. L'Allegri che rispetta se stesso quando litiga con Sacchi, un...ferrato antagonista, un maestro. A proposito, uno come Mourinho - cito il Migliore - l'avrebbe chiusa subito con una battuta che purtroppo non si trova nel bignami delle frasi fatte. L'ironia se non ce l'hai non te la puoi dare.
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