mercoledì 16 settembre 2020
Carmelo Pistillo, con Poesia da camera, si trova in ottima compagnia con Giancarlo Majorino, Mario Santagostini, Biancamaria Frabotta, Vivian Lamarque, Gianni D’Elia, Rosita Copioli, Silvio Ramat, Maria Pia Quintavalla, Giorgio Mannacio, nella Collana che Maurizio Cucchi cura per Stampa 2009 (pagine 118, euro 14). Libro singolare, questo di Pistillo, scandito in sei sezioni più un “Quartetto sulla bellezza”, in versi fin troppo liberi e sciolti che tuttavia mai diventano prosa con frequenti a capo, perché la loro poesia sta nelle metafore, nelle immagini che accadono «durante questa notte / che ricorda la disperazione / dell’alba che arriva». Disperazione, una quieta disperazione. Nell’indispensabile Nota finale, l’autore riporta un breve dialogo tra madre e figlio nell’atto unico Il quadro, di un Giovanni Testori diciassettenne: «Figlio: Mamma, si muore nella notte o all’alba? Mamma! Mamma! non si è mai dato che qualcuno vissuto nella notte sia morto all’alba? Mamma: Sì figlio, purché l’abbia disperatamente cercato e Dio l’abbia voluto. Figlio: Mamma dammi la disperazione! voglio cercarla, voglio sentire l’odore dell’alba…». Il fare poetico di Pistillo è un sofferto ma non esibito tenere a bada la disperazione, sottintesa anche negli slanci lirici più riusciti che alludono a tonalità cardarelliane. Nella prima parte della raccolta, Fiori nel camerino, è protagonista una donna, «l’ultima diva», forse conosciuta, forse evocata: «Hai l’avidità dell’attrice, / e fai ombra al mio dolore», destinataria di un amore che «resiste al sipario / anche dopo l’ultimo atto». Né meno misteriosa è «la voce della ragazza e dell’addio» a cui è intitolata la seconda parte, se è proprio lei, tra viaggi in treno e «luci rosse a New York», la ragazza «dalla carnalità tragica» di cui parla la Nota, «purtroppo suicida». Nella terza sezione L’uomo nella nebbia, in un paesaggio che richiama il Viandante del celebre quadro di Kaspar Friedrich, il poeta si chiede «se proseguire a capo / o lasciarmi andare a testa in giù / tra i versi più ardui e lenti / con il gesto di un arciere cieco». Insospettata la sezione Ritorno a Bolgheri, sottolineata anche nella prefazione di Maurizio Cucchi, il poeta rivisita i luoghi carducciani in compagnia della figlia Sofia alla quale sembra voler affidare il seguito di una tradizione che sente nata nei luoghi della sua stessa infanzia. Ma la ragazza «mi domanda / perché questa visita, / questa ripresa del passato / quando è davvero solenne / il silenzio qui attorno / e può bastare». E tuttavia: «Anch’io cresco, non resterò / sulla riva ad aspettare, / Sofia dice dopo aver letto / Carducci, e prima, / molto prima di ricevere / la nuova età negli occhi / e l’universo folto di prove» (gli ultimi due versi, scanditi così: «La nuova età negli occhi e l’universo / folto di prove», diventano un endecasillabo – al quale mai si sfugge – e un quinario). Non c’è spazio per ragionare sul Quartetto sulla bellezza: soltanto diciamo con Pound, Beardsley e, prima, con Platone, che «la bellezza è difficile».
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