giovedì 31 marzo 2022
Il termine compassione era passato di moda negli ultimi decenni, subendo quel processo di analisi e scomposizione che ha interessato altre profonde realtà umane. È stato cioè "smontato" per capirne le dinamiche psicologiche, spirituali e morali, non riuscendo più, in seguito, a comprendere e a vivere la compassione come atteggiamento fondamentale della nostra umanità. Spesso è stato ridotto a sentimento pietista, superato, sostituito da concetti come solidarietà, empatia, vicinanza. Ma di recente è in atto un certo recupero di tale virtù, a livello psicologico e morale, e anche in etica sanitaria, riprendendo la consapevolezza delle relazioni umane che ci interpellano quotidianamente, che ci chiamano a "sentire", a "reagire", a partecipare, a rispondere. Nella famosa parabola del Buon Samaritano ci viene presentato un samaritano in viaggio che incontra un uomo ferito e «vide e ne ebbe compassione» (Lc 10, 33). Il greco usa l'espressione esplanchnísthe che richiama le viscere materne, ossia sentimenti che toccano in profondità, a partire dal corpo, coinvolgendo anche il cuore e la mente.
Quindi avere compassione significa vedere e ascoltare la sofferenza dell'altro, cum-patior (soffro con), per capire la condizione dell'altro e cercare di offrire un rimedio ai suoi bisogni. «La compassione presuppone l'empatia (la capacità di sintonizzarsi con il vissuto dell'altro), ma nella compassione è presente una forte dimensione motivazionale e operativa; è un partecipare alla sofferenza dell'altro con il desiderio di alleviare o ridurre questa sofferenza, cercandone modalità concrete di attuazione» (L.Sandrin).
Tutto ciò implica il riconoscere, l'avvicinarsi e coinvolgersi, senza però "co-fondersi" per mantenere una capacità di valutazione oggettiva e di intervento efficace. Per chi opera in campo sanitario si tratta di fare della propria professione un impegno fedele e competente verso chi ha bisogno di cura, sapendo "chinarsi" per comprendere, alleviare, guarire, accompagnare.
Per ogni operatore sanitario coltivare la compassione significa mantenere viva la motivazione che ispira il proprio servizio e sviluppare una sensibilità capace di riconoscere le sofferenze e i bisogni del malato, e richiede conoscenze e abilità per svolgere prestazioni qualificate di cura. Ma chiede anche una certa «compassione verso se stessi», ossia l'attenzione e la prudenza per non pretendere di assumere su di sé tutti i disagi e le sofferenze delle persone che si incontrano e si curano, conservando una sana umiltà che alimenta il senso della condivisione nella comune fragilità umana, con diversi ruoli e competenze, ma sempre tutti vulnerabili nella nostra esistenza terrena.
Cancelliere
Pontificia Accademia per la Vita
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: