martedì 15 aprile 2014
L'ho incontrato in tivù, Rudi Garcia, dopo la settima giornata di campionato. La sua Roma aveva appena rifilato tre gol all'Inter, a San Siro, collezionando la settima vittoria consecutiva dopo quelle su Livorno, Verona, Parma, Lazio, Sampdoria, Bologna; tre successi in trasferta, quattro in casa, venti gol realizzati e uno solo incassato da De Sanctis, firmato Biabiany. Un percorso netto e spettacolare che mi ha autorizzato ad accoglierlo con un «complimenti vivissimi al miglior allenatore “italiano” del campionato». L'uomo di Nemours, per nulla sciovinista, ha sorriso compiaciuto e ha lasciato che completassi la singolare motivazione: «È la prima volta – gli ho detto – che vedo arrivare un allenatore straniero perfettamente al corrente degli usi e costumi non solo tecnici e tattici del nostro campionato: la sua Roma ha un equilibrio straordinario, fase difensiva ottimale, centrocampo duttile e forte, attacco esplosivo...». Immagino che tanti, come spesso accade, mi abbiano giudicato visionario o amico di vecchia data di Garcia, dandomi appuntamento... a Filippi, secondo terminologia classica. Ma Garcia è ancora lì, alle spalle della Juventus, dopo un campionato esaltante e spettacolare: l'unica assoluta e felice novità del torneo, alla guida della squadra più “allenante” che ha finito per esaltare anche le stranote capacità di Antonio Conte. Ma non basta. Il Rudi Garcia che ha restituito alla Roma e all'Italia il De Rossi rottamato da Zeman e il gran Totti attuale, ben diverso da quello che pareva avviato al prepensionamento, è un gentiluomo brillante, ironico, educato che ha stupito gli stessi ultrà giallorossi cui si rivolse, dopo le prime insulse contestazioni, con un deciso «forse siete tifosi della Lazio», scatenandone l'ira, poi repressa a suon di vittorie. Dopo le quali, sempre serenissimo, annunciò «abbiamo riportato la chiesa al centro del villaggio», battuta ch'è diventata titolo di un istant book, mentre la sua più recente biografia è intitolata «Tutte le strade portano a Roma». La sua, di sicuro. Ma non casualmente. Gli “americani” della Roma vengono spesso ricordati per i soldi che hanno investito nel club prima ridotto a... prodotto bancario, ma è giusto sottolineare che già con Baldini, due anni fa, s'erano premurati di cercare un allenatore “originale”, ovvero educato, sensibile, per nulla becero, portando a Roma Luis Enrique, scovato nella cantera del Barcellona: grandi qualità umane, scarsa esperienza e competenza, presto finito nel tritacarne capitolino. Quando la ricerca è stata affidata a Walter Sabatini, vecchia volpe del mercato, la scelta è caduta sul tecnico vincente del Lilla, curriculum scarno ma qualità sufficienti per occupare la panchina appena rifiutata prima da Allegri eppoi da Mazzarri. Un colpo di fortuna senza precedenti. Per la Roma e per Rudi che ritroveremo insieme sulla scena europea, in Champions, speranzosi - al di là delle scelte tifose - di vederlo conquistare altri successi che mancano purtroppo al calcio italiano ormai sul punto d'esser superato dal Portogallo. Un appunto: fan ridere quelli che lo chiamano “Garcià” mentre parlano del portierino dell'Udinese chiamandolo alla francese Scuffè. Scuffèt, signori, Scuffèt, furlano puro.
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