sabato 3 luglio 2021
Al via c'è un intruso, uno sconosciuto, un etiope. Si chiama Abebe Bikila, ha 28 anni, è figlio di un pastore, è sposato, ha due figli ma non ha le scarpe. Settembre struggente del 1960. Roma è splendida, prima il tramonto più bello dell'universo, poi le fiaccole sulla via Appia a segnare la strada: ombre giganti, la storia che corre. Non è merito dei Giochi, non questa volta.
Sono i sanpietrini a spiegare che il passo dell'uomo viene da lontano. E che a ogni umanità si deve rispetto, specie se povera, affamata, scalza. Contatto, passo, pelle e asfalto. Nel mondo che racconta la favola degli stivali delle sette leghe, appare un uomo che va oltre ogni immaginazione cancellando il concetto di protezione, di progresso, di tempo. A Bikila le scarpe l'Adidas e l'organizzazione le hanno offerte, ma gli stanno strette e lui comunque non è abituato a portarle. «Corro a piedi nudi per sentire cosa mi sussurra la strada», spiega. E la strada gli dice che è lui il primo africano a vincere una maratona olimpica, la prima in notturna, la prima che finisce fuori dallo stadio, la prima che è un'avventura dell'anima senza stringhe. Esistono solo due posti al mondo dove quello che indossi non conta: in Occidente dentro un fast-food e in Africa su un sentiero polveroso. La differenza è il tempo, e la fame. Qui si mangia, là si corre: è sempre una storia di pance e di piedi. Lievi e callosi come i suoi. Bikila passa accanto all'obelisco di Axum che il fascismo ha sequestrato all'Etiopia e se lo riprende. Uno scheletro nero che corre e vince, senza scarpe, ma con gambe e polmoni per andare lontano. Finalmente libero.
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