sabato 14 luglio 2012
   Vigna Clara è il nome di un quartiere della capitale nato su una collina della strada per Monte Mario. Il nome Clara ci fa immaginare una donna del popolo dai capelli scuri che divideva con la propria famiglia il lavoro di questa campagna, coperta di viti e di antichi lecci che ancora danno ombra alle asperità del terreno del Lazio. O meglio, Clara poteva essere l’erede di uno di quei vasti fondi che dopo la guerra una legge aveva tagliato per dare maggiore possibilità di vita a un popolo impoverito dal lungo conflitto. Le imprese di costruzione che si erano salvate dalla guerra ne acquistarono il terreno dando vita a un quartiere, per quei tempi, elegante e costoso. La piazza interna accoglieva sotto un ciuffo di pini un giardino fiorito dove i bambini potevano giocare. Sulle panchine sedevano ancora le bambinaie e qualche balia dal vestito lungo e colorato. Poche erano le macchine parcheggiate per le strade, ogni palazzina aveva il garage, e un mezzo a famiglia era allora il massimo che si potesse avere. La voglia di vivere, di dimenticare faceva ridere e scherzare le giovani coppie che avevano davanti a sé un mondo da rinnovare e da inventare. La televisione era già una conquista quando non si conoscevano né il computer, né i cellulari, né tutto ciò che la tecnica ci avrebbe offerto pochi anni dopo. Eravamo felici? So che si affrontava il momento con la voglia di vincere, con la sicurezza che tutto si poteva pagare pur di avere la pace, sfuggiti come eravamo alla morte, ai supplizi, alla fame. Il giorno, la notte, l’amore, la vita avevano riacquistato un valore immenso ed eravamo disposti a qualunque sacrificio per risorgere come famiglie, come popolo, come Paese. Vigna Clara oggi ha perduto il suo antico fascino. Le case espongono nel retro le ferite che il tempo ha raschiato sulle pareti. Il giardino ha sopportato male l’incuria e la devastazione del passaggio dei cani, delle motorette, degli anni, mentre diventa un’impresa lasciare il marciapiede e cercare un varco tra le macchine che vi posteggiano tutto il giorno. Ciò che manca di più sono i bambini, che non si incontrano se non in un asilo privato: è tutto il loro mondo ancora pieno di giochi e di favole che non hanno riscontro all’esterno, appena lasciato questo piccolo nido. Il quartiere può essere lo specchio di quello che succede al nostro popolo così dimesso, così stanco e incapace di coraggio e di speranza. Smettiamo la mentalità da lutto nazionale e raccogliamo anche le briciole, le piccole opportunità, apriamo le mani per ricevere e per dare. Vivere è una impresa meravigliosa, non si deve lasciar cadere nell’apatia e nella rassegnazione. Prendiamo come una medicina necessaria i sacrifici che l’economia ferita ci richiede e ricostruiamo la fiducia in un futuro che si presenterà forse differente da quello che abbiamo conosciuto, ma – secondo una legge universale – certamente con migliori opportunità.
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