mercoledì 3 giugno 2020
«La poesia non è fatta per nessuno, / non per altri e nemmeno per chi la scrive. / Perché nasce? Non nasce affatto e dunque / non è mai nata. Sta come una pietra / o un granello di sabbia». L’ha scritto Montale, in un quasi epigramma contro Asor Rosa, il 21 settembre 1972. Il corsivo di Sta è originale montaliano. Anche il poemetto di Massimo Bettetini, Luce di Candoglia (Società Editrice Fiorentina, pagine 52, euro 10,00), sta. Poesia enigmatica, che non comunica e non è sfogo di poeta. Granello o pietra, secondo Montale, «lo dirà l’escatologo, il funesto mistagogo», e prima, nel nostro caso, lo dirà il lettore, non facilitato dall’assenza di punteggiatura. Bruno Nacci, nell’ampia prefazione, ha individuato nel poemetto cinque «isobare lessicali» (splendida metafora), che «fissano le diverse quote dalle quali osservare ciò a cui, ciascuna da un’angolatura diversa, si ascende in un complicato sistema di segni convergenti: alcune ardue scelte di vocaboli; l’uso frequente di toponimi; una tessitura fissa di rimandi mitologici; un’autobiografica rosa di termini medici (Bettetini è psicoterapeuta); l’ampio raggio di lemmi e pericopi religiose. Perfetto, però col rischio (solo eventuale) che l’analisi delle singole tessere distragga dall’insieme del mosaico. Un po’ di numerologia. Il poemetto è diviso in due parti, di 433 versi ciascuna, dunque un totale di 866 versi, molti dei quali sono di sole due o tre parole. Sommando le tre cifre di 866 si ottiene 20, cioè 4 per 5. Quattro come gli elementi di Empedocle; cinque come i nostri sensi. In effetti, il poemetto è attraversato, per usare un’espressione di Nacci, dall’isobara cosmica dei quattro elementi, compatibile con l’isobara dei cinque sensi, sensibilità dell’uomo in corpo e anima. Tra i toponimi di Bettetini, prevalente è il paesaggio milanese, fin dal titolo: Luce di Candoglia rimanda al marmo con il quale è stato costruito il Duomo, contemplato in un giorno di pioggia: «Mentre l’acqua lava le sue lacrime / brilla la luce di Candoglia». Ascoltiamo: «Maria Bambina trastorna lo sguardo / e la processione delle bianche sorelle / dipinge di fiori / via Santa Sofia». Io, milanese, so che in via Santa Sofia c’è il santuario di Maria Bambina, retto delle suore della Carità, note anche come suore di Maria Bambina, che, quando assistono i malati negli ospedali, vestono di bianco. Se Bettetini avesse spiegato in nota quello che ho appena scritto, sarebbe stato utile al lettore? Invece non ha messo note, e ha fatto bene, perché la poesia non si spiega: Sta, e ciascuno la intende secondo il proprio udito. Tra i versi franti del poemetto, talvolta emergono endecasillabi che un laureando si divertirebbe a spigolare. Per esempio: «Se ad amare / bruca la stonatura / che dall’ape arpa / volto per volto / poi conduce…». Se i cinque versi venissero scanditi così: «Se ad amare bruca la stonatura / che dall’ape arpa volto per volto / poi conduce…», avremmo due endecasillabi e un quinario (in desiderio di endecasillabo). La lingua italiana ha un ritmo – l’endecasillabo, appunto – al quale non si sfugge.
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