mercoledì 16 luglio 2014
Claudio Risé, psicanalista di fama internazionale, ripropone, aggiornato, un suo lavoro del 2004, Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo (San Paolo, pagine 144, euro 14,00), interessante sotto diverse angolazioni. Anzitutto per il metodo espositivo. Gli psicanalisti, per correttezza etica, non dovrebbero rendere pubbliche le confidenze che ricevono dai clienti: alcuni le riportano con la protezione dell'anonimato, ma c'è sempre chi potrebbe ugualmente riconoscersi o riconoscere qualcun altro, rischio che Risé non intende correre. C'è però un cliente di Risé che è ben felice di mettere a disposizione le proprie esperienze, e quel cliente è Risé stesso. Il libro, dunque, è scritto in prima persona, e l'autobiografia dà risalto letterario alla spigliata narrazione scientifica.Quando, dunque, Risé ha scoperto che la felicità è donarsi? Molto presto, in piena adolescenza. Quindicenne, progettò un'esplorazione solitaria della Sardegna, all'insaputa dei genitori. A Civitavecchia di imbarcò su un rimorchiatore, guardato con diffidenza dall'equipaggio. Ma un giovane mozzo, intuendo che il coetaneo era digiuno, gli si avvicinò porgendogli due mele. «Feci per frugarmi in tasca – ricorda Risé – alla ricerca di spicci. Mi fulminò con gli occhi scuri. “Che fai? – disse –. Sono per te. Da me”». Il cerchio di solitudine egocentrica in cui il giovane borghese di Milano non sapeva di essere rinchiuso, si era spezzato. «Quel: “Per te. Da me” fondava un “essere con”". Per un secondo, ma anche per tutto il viaggio, e forse, in un qualche modo, per tutta la vita, eravamo insieme. Esseri umani. Che si scambiavano doni. Si curavano l'uno dell'altro. Insieme, senza starsi addosso. Nessun possesso, nessuno scambio interessato». Il significato profondo di quell'episodio innerva tutta la trattazione, come la vita dell'autore che ha scoperto il dono del maestro quando studiava a Ginevra con il grande Jean Meynaud, e il coraggio degli sconfitti frequentando gli esuli algerini negli anni caldi raccontati da Camus.Ma la fonte del dono è il sacro, inteso come «qualcosa che va al di là di noi e del mondo delle cose, e nei confronti del quale noi possiamo assumere soltanto una posizione di devozione (non esente da timore)». È la sacralità della vita e, ancor più del contatto con il divino, che Risé intuì al liceo Berchet di Milano, attraverso un professore di religione che si chiamava don Luigi Giussani. Naturalmente, poi (“naturalmente” nel significato forte dell'avverbio), c'è la scoperta del dono nella coniugalità e nella paternità, e lo psicanalista ha pagine severe contro la riduzione del figlio a merce, anziché accoglierlo come dono, come purtroppo avviene nelle abominevoli pratiche di fecondazione extracorporea e di gestazione in affitto. Non mancano digressioni sapide sulle nevrosi di Jean-Jacques Rousseau e il capitolo finale svolge considerazioni originali sulla vecchiaia, da vivere col distacco di chi si prepara all'estremo passaggio. Anche la vecchiaia può essere vissuta come dono: «Il vecchio può dare il suo dono d'amore più profondo: l'augurio disinteressato (una sorta di costante e forte preghiera interiore) che l'altra/o sia felice, fornendo assieme i saperi che possono aiutare a diventarlo. A cominciare proprio dalla testimonianza (di cui il vecchio donatore è capace) del dono del sì alla vita e alla morte che viene. Accompagnato dalla passione per le sue meraviglie, e dalla meditazione serena della profondità dei suoi orrori e delle sue salvezze». Un bel libro, un buon libro.
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