martedì 19 marzo 2019
In pagina varia, nei giorni scorsi, qualche preoccupazione dell'episcopato italiano sulla concreta articolazione del cosiddetto Reddito di cittadinanza (Rdc) e sul "Fatto" (15/3, p. 12) una lettera: «La Chiesa ostacola lo Stato nella lotta alla povertà»! Con domanda: «I vescovi si scagliano contro il reddito di cittadinanza. Eppure al centro del messaggio cristiano c'è il tema della povertà.
Come spiegare questa sorprendente deviazione dalla retta via?» Risposta sicura: «Semplice. La Chiesa per millenni è stata l'istituzione che più si è spesa per aiutare i poveri e si è fatta carico di questa problematica anche quando la politica si mostrava del tutto indifferente. Ora, l'intervento dello Stato (...) viene percepito come un'indebita interferenza (...). Se è lo Stato a occuparsi dei poveri, la Chiesa teme di perdere il monopolio dell'esercizio della virtù teologale della carità (...) lo Stato è un pericoloso concorrente, perché pone tale questione sul piano del diritto e non su quello della carità. Il diritto esalta la dignità delle persone, la carità la umilia e la mortifica». Che dire?
A parte quel «si scagliano» – ohibò, davvero singolare – pare evidente che il lettore identifica carità ed elemosina, ma la «virtù teologale» che egli pure richiama è ben altro. Il servizio ai poveri – basti pensare come esempio a santa Teresa di Calcutta – è nei secoli ben altro che elemosina. Il malinteso allora è grosso. E nel merito c'è altro. Per caso stesso giorno ("Espresso" in edicola, p. 98) leggo che il Rdc è operazione boomerang, porta maggiore debito pubblico e povertà più diffusa, non tocca le grandi ricchezze e, poiché è a debito, provoca maggiore esborso di interessi. Ne segue che diminuiscono i fondi da destinare ai ceti popolari e aumentano tasse e imposte che come sempre colpiscono quasi solo lavoratori dipendenti e pensionati. Qualche dubbio è lecito...
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI