giovedì 30 marzo 2017
In giorni nei quali è ripresa con forza l'attenzione sul rapporto tra magistratura e politica - sia "in andata", cioè soprattutto sui limiti all'ingresso in politica e alle esternazioni da parte di questo o quel magistrato; sia "in ritorno", e in particolare sui limiti che i poteri legislativo ed esecutivo incontrano nella posizione costituzionale di autonomia e indipendenza dell'ordine giudiziario -, è utile la lettura del libro di Mario Almerighi "La storia si è fermata. Giustizia e politica. La testimonianza di un magistrato" (Castelvecchi, 2014). Il dottor Almerighi, morto sabato scorso nella sua casa di Trevignano Romano, è stata una figura di grandissimo spessore professionale e umano, protagonista di alcune tra le pagine più luminose della storia giudiziaria del nostro Paese. Ritiratosi dalla magistratura dopo l'esperienza di presidente del tribunale di Civitavecchia, in questi anni si è dedicato a scrivere libri e sceneggiature, con l'obiettivo di aiutare a leggere con attenzione episodi giudiziari anche molto noti, che attendono ancora di essere esattamente collocati e compresi.
"La storia si è fermata" ci consegna non soltanto la sua autobiografia professionale, ma un criterio di lettura della società e della vita pubblica italiana degli ultimi cinquant'anni, con un'idea di fondo: secondo Almerighi il conflitto vero non è tra politica e magistratura, ma tra politica e legalità (e anche tra magistratura e legalità, perché anche per i magistrati può porsi un problema di deviazione dalla legalità e di corruzione).
L'etichetta di «pretore d'assalto» che gli fu apposta, a partire dalla coraggiosa indagine sui petrolieri di inizio anni Settanta, è largamente insufficiente a dare conto di un magistrato che non soltanto non ebbe indulgenza verso la teoria e la pratica dell'uso alternativo del diritto e che sempre criticò quanti «interpretavano i bisogni sociali emergenti sulla base esclusiva della propria coscienza senza neppure porsi il problema di una verifica ancorata ai valori costituzionali o alle scienze sociali», ma che per tutta la vita evitò (sono ancora parole sue) di «porre tutto il bene nella magistratura e tutto il male al di fuori», e che lottò tenacemente, con alterne fortune, contro le degenerazioni provocate, all'interno stesso della magistratura, da una malintesa «cultura dell'appartenenza».
Un ricordo personale: incitandomi ad accettare l'incarico di presidente dell'Associazione "Vittorio Bachelet", mi espresse la convinzione (significativa per chi, come lui, aveva diversa storia e formazione culturale e ideale) che, in questo momento storico, l'apporto del pensiero di ispirazione cattolica sia particolarmente importante per congiungere virtuosamente giustizia e società. Tra tanti iniziative e riflessioni sulla legalità e sull'anticorruzione, meditare il lascito di Mario Almerighi costituisce allora un'iniezione di speranza. Dalla parte della Costituzione.
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