giovedì 20 ottobre 2016
Il rapporto tra il nostro Paese e l'Unione europea non può essere descritto e percepito a senso unico o attraverso slogan: è un rapporto complesso, che vede ambiti e temi sui quali siamo noi a poter dare "lezioni" all'Europa, e altri nei quali dobbiamo onestamente riconoscere che l'Italia ha ancora un po' di strada da fare.Questa semplice considerazione mi è venuta spontanea riflettendo su una ricerca-azione internazionale, coordinata dal Centro studi "F. Stella" dell'Università Cattolica (diretto dal professor Gabrio Forti) e avente per oggetto l'attuazione di una direttiva europea sul rapporto tra vittime e grandi imprese, e in particolare sui "corporate crimes", cioè gli illeciti commessi da imprese nel corso di una pur legittima attività produttiva, commerciale o finanziaria (2012/29/Ue, recepita dal d. lgs. n. 212 del 2015). Illeciti che non si limitano a produrre danni economici, ma che colpiscono anche la salute, l'integrità fisica e la vita stessa delle persone: gli esempi fatti, nel corso della presentazione della ricerca, andavano dal caso Eternit-amianto a reati concernenti la sicurezza di prodotti alimentari, farmaceutici e medicali.La strada da percorrere è soprattutto quella di una maggiore consapevolezza culturale di quanto vulnerabili siano le vittime di questi reati, incapaci persino (anche perché gli effetti spesso si mostrano a distanza di anni) di percepire e riconoscere la propria condizione. Di qui l'esigenza di assicurare loro un'autentica informazione, fulcro della direttiva europea e purtroppo riduttivamente da noi recepita: quello delle vittime è un diritto, ha scritto il magistrato Marco Bouchard, di "comprendere e di essere comprese", da garantire "attraverso una relazione umana e non attraverso un adempimento burocratico". Anche le parole sono importanti in questo cammino: condivisibile, ad esempio, è l'invito dei promotori della ricerca a parlare di "svantaggio conoscitivo" (che rende meglio la realtà), piuttosto che, come in passato, di asimmetria informativa.Si tratta allora di potenziare la consapevolezza dei rischi connessi ai reati d'impresa, non per criminalizzare in blocco le attività imprenditoriali, ma per renderle sostenibili, sotto i profili sanitario, ambientale, etico e politico. Nel Paese la cui Costituzione contiene quel gioiello anche linguistico che è l'articolo 41 (l'iniziativa economica privata "non può svolgersi in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana") non dovrebbe essere impossibile. Sapendo che, lo ha ricordato presentando la ricerca il sociologo britannico Steve Tombs, all'origine di un "corporate crime" c'è a volte qualche responsabilità del potere pubblico.
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