venerdì 22 maggio 2009
Nell'ultimo incontro in «diretta tv» - il sabato sera di Juventus-Inter - avevo detto a Ranieri, scherzando ma non troppo, che secondo costume calcistico cinque attestati di fiducia in un mese valevano un licenziamento. La Juve, proprio perché è la Juve, quella dello stile particolare, di attestati ha dovuto rilasciarne otto, poi Ranieri è stato mandato a casa. Un licenziamento, in casa bianconera, non si verificava da quarant'anni, e siccome c'ero mi chiedono in tanti di raccontarlo.
Quarant'anni, ottobre 1969. Se avessi un nipotino, lo prenderei sulle ginocchia e comincerei a narrargli la strana favola di Luis Carniglia, detto Gigio. C'era una volta... Gigio mi telefonò, con una fil di voce che rappresentava a fatica la sua rabbia: «M'hanno ucciso...». In effetti, pareva più morto che vivo.
Chiamava dalla sua anonima abitazione di Corso Sebastopoli arredata secondo uno standard allenatore-giocatore che viene che va. C'ero andato dopo il suo trasferimento da Bologna a Torino: nelle stagioni in rossoblù ('65-'68) eravamo diventati amici, anzi, gli "amici della paella" che ci preparava mamma Carniglia sotto gli occhi della splendida figliola Guadalupe, detta Lupita.
In quell'autunno del '69 Gigio s'era beccato una fastidiosa influenza che gli impediva di stare con la squadra in realtà malmessa: sei partite, tre sconfitte, c'era da lavorare; e invece stava a letto, Gigio, col termometro e la smania di uscire, farsi vedere. Perché la società, subdola, aveva cominciato a far circolare voci di un Carniglia molto malato. «Me hanno ucciso»: e infatti all'improvviso era stato sollevato dall'incarico per ragioni di salute, sostituito lipperlì con uno scrittore di gialli, tal Giacotto se ben ricordo, eppoi dal bravo Ercole Rabitti che alla fine avrebbe portato la squadra al 3° posto.
In realtà, Gigio era stato "ucciso" non dall'elegante (e ininfluente) presidente senatore Vittore Catella, né dal dg Remo Giordanetti che l'aveva arruolato in forza di un curriculum che - a parte disavventure italiane a Roma, Bari, Milano e dintorni - presentava uno scudetto e due Coppe Campioni vinte col Real Madrid (la prima nel '58 in finale, 3-2 con il Milan di Liedholm, Schiaffino e Maldini sr).
La sua testa l'avevano chiesta i giocatori, proprio perché mister Carniglia continuava a rompere con quella storia del Real che gli suggeriva confronti improponibili: là, con lui, c'era stato un certo Di Stefano, e compagnia bella. Qui, a Torino, aveva gente come Anzolin, Salvadore, Leoncini, Castano, Morini, Cuccureddu, Furino, Del Sol, Favalli, Bob Vieri (papà di Bobo), Zigoni, Anastasi, Haller... Ecco, ne sopportava 3 o 4, i "piedi buoni" Anastasi, Haller e Vieri. Gli altri... Aveva un abitudine, Carniglia: alle domande dei giornalisti fidati rispondeva con un interrogativo: oficial o par amigo? «In via oficial la Giuve es buena equipo... Faremo grandi cose... In amicizia: son todos contadinos, macacos...».
La cosa si riseppe, naturalmente, e capitan Ernesto Castano, a nome di tutti, fece sì che l'influenza del Gigio diventasse una malattia grave». Quarant'anni dopo, lo spogliatoio bianconero ha fatto una seconda vittima, l'onesto Claudio Ranieri. Che non straparlava come il "gaucho" Carniglia ma qualche nemico se l'era fatto. Dicono che l'abbiano "ucciso" le urla di Camoranesi. No, il silenzio di Alex Del Piero...
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