mercoledì 29 maggio 2013
L'autore di Gli ultimi. La magnifica storia dei vinti (Neri Pozza, pp. 240, euro 16,50) è Domenico Quirico, il giornalista della "Stampa, inviato in Siria, del quale non si hanno notizie dal 19 aprile scorso. Quirico, grande reporter nelle zone di guerra, rapito in Libia nell'agosto del 2011, era stato liberato dopo due giorni. Questa volta sta passando troppo tempo, si moltiplicano gli appelli, anche del cardinale Bagnasco, e non bisogna stancarsi di pregare per lui. Gli ultimi è opera di un grande scrittore. Sono dieci ritratti di personaggi che la Storia ha designato come liquidatori di imperi, di istituzioni in un punto di flesso della loro parabola, che l'autore raduna in tre mannelli, dedicando equamente una ventina di pagine a ciascuno dei dieci. I primi quattro sono etichettati come «I buoni a nulla». Si comincia con Dario, il re dei re persiano che fugge incalzato dalle truppe vittoriose del giovane e implacabile Alessandro; viene poi Romolo Augustolo, il giovanissimo ultimo imperatore romano d'Occidente, deposto da Odoacre nel 476, e confinato a Napoli nella villa che fu di Lucullo e che oggi è Castel dell'Ovo. Il terzo «buono a nulla» è Pu Yi, ultimo imperatore cinese, asceso al trono a soli due anni, nel 1908, deposto nel 1912, ricollocato sul trono, per dodici giorni, nel 1917, e poi formalmente nominato imperatore, dai giapponesi, nel 1934, fino all'invasione sovietica della Manciuria nel 1945. Morirà a Pechino nel 1967, e la sua storia è stata romanzata da Bernardo Bertolucci nel film L'ultimo imperatore. Con Gorbaciov, ultimo del quartetto, Quirico è particolarmente severo: lo considera «uno sganarello, una comica spalla che spunta dietro i colbacchi e i tailleur di Raissa», che non si è reso conto della portata anche politica del disastro di Chernobyl.I «mistici» sono Atahualpa, l'ultimo imperatore del Perù ingannato e ucciso da Pizarro, con una procedura che indignò perfino Carlo V. La fine di Rasputin, degna di uno Shakespeare russo, è ricostruita con efferatezza e sgomento; e alla dignità di Carlo d'Asburgo, ultimo imperatore d'Austria, pacifista travolto dalla prima Guerra mondiale, è riservata una rievocazione quasi commossa. I tre «consapevoli», non sono propriamente dei vinti, anzi, Atatürk, fondatore della moderna Turchia, è il vincitore che ha dissolto l'impero ottomano, e al generale Salan, il capo dell'Oas, oppositore di De Gaulle nella guerra d'Algeria, è concessa la considerazione che il regista Gillo Pontecorvo ebbe per il Fln nel film La battaglia di Algeri. Chiude la galleria, inaspettatamente, Benedetto XVI, che Quirico tratta con deferenza e schietta ortodossia: il «consapevole» farsi da parte, rinunciando al Papato, è il suo ulteriore e misterioso servizio alla Chiesa.La scrittura di Quirico è davvero creativa, direi «ariostesca», intrisa com'è di elaborazione fantastica pur aderente alla storicità dei fatti, non senza curvature aforistiche. Per esempio, scrive: «La scultura è la risposta dell'uomo alla invocazione della materia a essere richiamata dalla morte alla vita», e con naturalezza viene riesumato un vocabolo desueto come «arfasatto», per indicare uomo dappoco, meschino raggiratore (anticamente, manipolatore delle Scritture). È, quello di Quirico, un felicissimo caso di giornalismo storico che entra, a pieno titolo, nella letteratura. La dedica del volume, dopo il 19 aprile, ha un'aura struggente: «Aspettami, Giulietta, e io tornerò ad onta di tutte le morti». Anche noi aspettiamo Domenico Quirico: abbiamo bisogno dei suoi libri.
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