martedì 27 maggio 2014
Gli ordini impartiti alla truppa, prima, con gesti misurati e l'aria paciosa appena violata dal mitico sopracciglio “parlante”. La gioia esplosiva, dopo, goduta tutta sul campo, coi suoi ragazzi, capriole, lanci trionfali al cielo prima dei sorrisi di circostanza e le strette di mano imposte dal cerimoniale, da Juan Carlos e da Michel Platini. Infine le interviste per dire in spagnolo maccheronico «mucho gusto» («che piaser»), eccetera, con forte influsso emiliano: ecco il Carlo Ancelotti che ho paragonato a Nereo Rocco, figura storica del Milan, iniziatore dell'avventura rossonera più bella del mondo il 22 maggio del '63, quando a Wembley - con i gol di Altafini, le finezze di Giannino Rivera, la sicurezza di Ce-Cesare Maldini - conquistò la prima Coppacampioni italiana battendo il Benfica di Eusebio e Bela Guttmann. Nereo e Carlo, due personaggi del giardino dei semplici, il Paron magari più scaltro già nel definirsi suddito di Ceccobeppe, mentre Carlo sembra uscito da una pagina di Guareschi; entrambi di poche parole e moltissimi fatti. Li ho rimessi insieme sabato sera al 93' di Real-Atletico, quando Sergio Ramos ha infilato alle spalle di Courtois il pallone dell'1-1 e ha dato il via alla goleada del Real, al 4-1 che mi ha fatto tornare in mente l'impresa del 28 maggio 1969, l'identico risultato imposto dal Milan di Nereo (tripletta di Pierino Prati e solitario gol di Angelo Benedetto Sormani) all'Ajax dei “lancieri bianchi”, di Crujyff e Michels. So di essere un fortunato, avendo vissuto le più belle stagioni del calcio italiano, ma non mi confondo nella massa dei “sotutto-soniente” che buttano via con spregio il calcio italiano dopo aver collaborato a esiliare uno come Ancelotti, passato di successo in successo da Londra a Parigi a Madrid. Era “bollito”, Carlo, per il Milan oggi stracotto per mancanza di uomini, stimoli, idee. E per fortuna ci siamo tenuti Antonio Conte, da tanti col pensiero già spedito all'estero ad arricchire il calcio altrui. Non sono solo i soldi, che ci mancano, e le vittorie non nascono dal fatturato, ennesima fanfaluca nostrana. Ci mancano in ogni campo e ogni livello la competenza, la laboriosità e l'ardimento che ci fecero grandi, trasformandoci da italianuzzi in protagonisti mondiali; ci mancano gli stadi, ormai inutilizzabili non per vetustà ma per incuria; ci mancano i tifosi animati solo da passione e non da sordidi interessi o spirito violento; ci manca l'orgogliosa consapevolezza di essere maestri di calcio nel mondo intero, come l'altra sera: Real-Atletico è stata una finale “italiana” nel disegno tattico e nell'esecuzione, valore estetico cento, valore emozionale mille. Ancelotti - come Capello e Lippi - è dovuto espatriare per continuare a vincere e a insegnare il calcio italiano che resta il più intrigante del mondo.
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