venerdì 25 gennaio 2013
Roberto Baggio ha detto addio alla Federcalcio. Secondo i miei appunti sudafricani, ci ha messo due anni e mezzo ad arrivare alla conclusione di un rapporto in realtà mai nato. Dopo il gol di Quagliarella allo spirare di Italia-Slovacchia, all'Ellis Park di Johannesburg, risuonò il molto italico «tutti a casa»: era il 24 giugno del 2010, mi chiesi che scuse avrebbe trovato, la Federazione, per giustificare quella figuraccia realizzata contro gli esordienti slovacchi, quasi una Corea. Nel '66 era stato annunciato il blocco degli stranieri, in quelle ore, invece, i cervelloni, dopo avere confermato la sostituzione di Lippi con Prandelli, partorirono le solite idee di “riparazione”: stop all'invasione degli extracomunitari, ricorso ai Nuovi Italiani per una Nazionale multietnica, alla tedesca; poi la nomina di Baggio alla presidenza del settore tecnico di Coverciano, di Sacchi alla supervisione delle Nazionali, di Rivera alla presidenza del settore giovanile e scolastico. Rivera, Sacchi e Baggio, la storia in soccorso alla cronaca. Rivera c'è ancora, fa la guerra ai mulini a vento ma resiste, forse l'addio di Robi lo aiuterà a far crescere quel settore nel quale si deve - parole del dimissionario - «rinnovare dalle fondamenta la formazione di chi insegna calcio ai bambini e ai ragazzi con l'obiettivo di crescere buoni calciatori ma soprattutto buoni uomini. Oggi più che mai l'etica e i valori devono diventare i punti fondamentali nell'educazione e nell'insegnamento anche nel calcio». Parole sante. Le ho sentite dire da Gianni Rivera alla presentazione di un torneo giovanile ad Alcamo, e lui ci lavora con dedizione, speranza e pochi mezzi. Resiste, resiste, resiste. Sacchi ha trovato facilmente il suo ruolo in commedia, aspira da sempre a fare il protagonista, ci riesce soprattutto parlando, scrivendo, facendo l'uomo-sandwich e tuttavia, furbescamente, evitando di disturbare i manovratori. Baggio, il buddista Baggio, l'uomo dolce e sereno che dopo forti sofferenze fisiche e spirituali ha dato la sua vita al gol e alla felicità del prossimo, s'è affidato al karma che lo vuole più in contemplazione che in azione, comunque non adatto a sedersi in un consesso di smagati praticoni contagiati a loro volta dal virus politico che comporta più parole che fatti. Fra questi, Ulivieri è quello che ha scelto la concretezza di un seggio in Parlamento. Anche lì si fanno chiacchiere, ma almeno ti pagano profumatamente. L'esperienza di Baggio - per restare in tema - equivale allo zero rispetto a ciò che aveva tentato di produrre: resta un progetto di novecento pagine, un promesso investimento di dieci euromilioni, la serena convinzione di non contar nulla davanti a chi si è addirittura stupito che volesse davvero far qualcosa. Non ha capito: era un presidente ad honorem, una gloriosa pezza appiccicata al pallone che s'era sgonfiato in Sudafrica. Due anni e mezzo per capirlo non fanno onore neppure a lui.
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