domenica 30 settembre 2018
Erano accatastate malamente, una gettata sull'altra. Facevano pensare a un groviglio di giganti sfiniti dal loro stesso peso, dopo una lunga lotta senza vincitori. D'altronde non servivano più a niente, non erano che degli inutili relitti da distruggere. Alcuni giacevano solitari, accasciati su un fianco con la pancia spaccata contro gli scogli nel naufragio. Sembravano prede ferite, colte nello spasimo che precede l'ultimo respiro. Era il cimitero delle "carrette del mare", sull'isola di Lampedusa. L'ultimo atto di vita dei barconi usati per la transumanza d'uomini e donne, attraverso l'impetuosa roulette russa del Canale di Sicilia. Scafi mercantili o pescherecci d'altura dal fasciame in legno e con le scritte in arabo, colorati di bianco e rosso. Vecchi, fatiscenti e inadatti alla navigazione in sicurezza, condotti da traghettatori senza scrupoli, ma col bastone sempre nel pugno. Figurarsi se possedevano anche un'anima.
Quando calava la notte e i rumori dell'isola si placavano, incamminarsi accanto ai relitti creava uno stato di pena e di tormento. Soprattutto quando il vento soffiando dal mare, rabbioso, attraversava quei corpi di legno da dove sembrava di percepire bisbigli e lamenti. Solo suggestione, forse. Eppure erano diversi i pescatori lampedusani che raccontavano di avere sentito dei lamenti levarsi dal cimitero delle barche, quando di notte ci passavano accanto per raggiungere il porto. Giovanni, addirittura, giurava di avere sentito delle voci, degli strani rumori che gli avevano messo addosso una paura tale da decidere di cambiare percorso. E mentre mi raccontava le sue visioni, non smetteva di segnarsi la croce sulla fronte nervosa. Erano i dispetti del vento, di sicuro, che strusciando su quei relitti, faceva tintinnare il sartiame, e sbattere i legni tra loro.
Eppure, anche se era solo un silenzio di relitti morti, in quei vecchi barconi che aspettavano il loro turno per la discarica, ancora si celava la memoria vivida delle tante mani che vi si erano incollate saldamente durante il viaggio in mare e pure aggrappate disperatamente per non annegare durante il naufragio. No, non erano solo dei nudi legni morti, madidi d'acqua di mare, impregnati di grasso e olio motore, dove ancora era possibile rinvenire qua e là gli stracci penzolanti e gli oggetti appartenuti alla ciurma dei disperati.
Ai migranti, quelli fortunati, che a Lampedusa sono arrivati vivi e non come cadaveri ripescati in fondo al mare, e poi chiusi in un sacco nero a concludere il loro viaggio della roulette russa, senza poter dichiarare il proprio nome e cognome e neppure la loro storia. La personale Odissea vissuta nel risalire da sud il Canale di Sicilia, per morirvici. Come accadde al barcone che la notte del 3 ottobre 2010 andò a fondo a meno di un chilometro dalla costa di Lampedusa. La salvezza era a portata di mano, per gli oltre 550 passeggeri a bordo. Le dimensioni di quella tragedia sono immense. Muoiono in 368, si salvano in 155. Ma mai nessuno saprà con esattezza quanti sono stati i dispersi, senza una identità né una storia per una lapide.
Il cimitero dei barconi, che sembravano bestie aggrovigliate, altro non era più che un trofeo muto a disposizione delle macchine fotografiche dei turisti ospiti sull'isola. Un ammasso di relitti da smaltire, da lasciare sopravvivere nell'intimo e appartato ricordo dei sopravvissuti.
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