giovedì 26 luglio 2018
C'è sempre un buon motivo per occuparsi di Stanley Kubrick, il regista nato a New York esattamente novant'anni fa, il 26 luglio 1928, e morto a St Albans, in Inghilterra, il 7 marzo 1999. Un percorso inverso rispetto a quello compiuto dall'inglese d'America Alfred Hitchcock, che in certa misura gli somiglia per la capacità di rappresentare un'idea sempre riconoscibile di cinema. Ma se la grandezza di Hitchcock si esprime nella fedeltà a un unico genere, quello che noi italiani abbiamo a lungo chiamato "giallo", la cifra caratteristica di Kubrick sta in un eclettismo che lo porta a praticare generi differenti, senza mai rinunciare a un'intima coerenza stilistica e concettuale. Nella filmografia relativamente esigua di Kubrick (il suo perfezionismo non gli permise di girare più di tredici lungometraggi in quasi mezzo secolo di carriera) è possibile riscontrare qualche occasionale ripresa dello stesso tema, come avviene con la trilogia bellica composta da Paura e desiderio del 1953, Orizzonti di gloria del 1957 e Full Metal Jacket del 1987, o con il dittico incentrato sull'oscurità del desiderio, nel quale trovano posto Lolita del 1962 e il testamentario, ossessivo Eyes Wide Shut. Eppure, anche quando torna sui suoi passi, Kubrick non si ripete mai, grazie alla mobilità di un'ispirazione che può spingersi nelle profondità della storia (Spartacus del 1960, Barry Lyndon del 1975) così come nelle pieghe di una cronaca polemicamente amplificata in parodia (Il dottor Stranamore del 1964).
Ogni volta che affronta un genere, Kubrick finisce per ridisegnarne i confini. Accade con la fantascienza di 2001: Odissea nello spazio (del quale circola in queste settimane una versione restaurata in occasione del cinquantenario) e con la cupa profezia fantapolitica di Arancia meccanica (1971). E accade con quello che può forse essere considerato il più emblematico tra i film di Kubrick, Shining, tratto nel 1980 dal romanzo di Stephen King. Collaborazione a dir poco contrastata, questa tra il cineasta e il maestro dell'horror, culminata nella realizzazione di una miniserie televisiva, datata 1997, personalmente voluta dallo stesso King con l'obiettivo di fornire una trasposizione più fedele del libro che, secondo lui, Kubrick avrebbe stravolto. Spesso ispirato da opere letterarie, lungo una linea che dall'originario Barry Lyndon di Thackeray arriva fino a Doppio sogno di Arthur Schnitzler (rielaborato in Eyes Wide Shut), il regista non disdegnava il rapporto con gli scrittori. Lo spunto per 2001 venne da un breve racconto di Arthur C. Clarke, coinvolto nella sceneggiatura, e tutto sommato anche Anthony Burgess non si dimostrò scontento della resa cinematografica di Arancia meccanica.
Con King, e con Shining, la situazione è molto diversa. L'impalcatura del racconto sembra restare inalterata, ma a subire una trasformazione radicale è la temperatura delle immagini e la stessa psicologia dei personaggi, a partire dal protagonista, lo scrittore fallito Jack Torrance impersonato da un indimenticabile Jack Nicholson. Anche sua moglie Wendy (l'attrice Shelley Duvall) e l'antagonista Dick Halloran (il cuoco veggente che sullo schermo ha il volto del bluesman Scatman Crothers) corrispondono solo esternamente ai loro modelli romanzeschi. E poi c'è il piccolo Danny, interpretato dal giovanissimo Danny Lloyd: è lui a portare su di sé il peso dello shining, la "luccicanza" che gli permette di percepire la dimensione nascosta della realtà, quello stesso mondo di apparizioni e inganni che Kubrick ricostruisce nel suo angosciante Overlook Hotel. Sì, l'horror non è più lo stesso dopo che il regista lo ha rivisitato. Ma a essere cambiato veramente è lo sguardo di noi spettatori.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: