domenica 12 agosto 2018
Ad un certo punto mi piaceva proseguire a piedi. Abbandonavo il taxi all'ingresso del quartiere e mi facevo sedurre da quel tratto di strada spolverata di sabbia gialla portata dal vento del deserto. Fermento di negozi e chioschi da cui si diffondevano un arcobaleno di aromi di spezie e odori di carni arrostite al momento sulle braci vive, musica. Era bello osservare la vita degli altri. Di persone dalle abitudini diverse dalle mie, ma uguali nella quotidianità di tutti i giorni. Gli anziani trascorrevano il loro tempo seduti nei caffè con accanto l'immancabile pipa ad acqua, il narghilè, da cui sbuffavano pennacchi di fumo di tabacco aromatizzato alla frutta. Giocavano agli scacchi, a backgammon (tavola reale, ndr), accompagnando il tempo con della dolcissima pasticceria al pistacchio e miele e tè bollente al cardamomo. Da sorseggiare dai piattini, per farlo raffreddare. Era così anche la Baghdad cristiana. Non sembrava affatto di vivere dentro ad un tempo di guerra. La vita fa presto ad abituarsi alle difficoltà e alle paure. Specialmente quando la gente dell'Iraq, ai tempi di Saddam Hussein, aveva già percorso decenni con la testa sotto le bombe e il lutto negli occhi.
«Abana allazi fi assmawat... Salli li ajlina nahnu al kata'a». «Padre nostro che sei nei cieli... Prega per noi peccatori». Nonostante gravasse un sole bollente, monsignor Paul Dahdah, arcivescovo latino, finalmente poteva tirare un sospiro di sollievo e guardare con un sorriso di speranza dalla finestra della sua residenza dove entrava lo schiamazzo e la gioia dei bambini della vicina scuola di san Giuseppe.
Dopo giorni di apprensione e angosciante attesa per una nuova guerra, monsignor Dahdah e altri patriarchi e religiosi delle chiese cristiane irachene avevano pregato insieme al segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan. L'uomo che con la sua mediazione aveva scongiurato il conflitto tra Stati Uniti e Iraq. Almeno per quel momento. Era il 1998 e, ricordo, anche a Baghdad si inaugurava l'anno dello Spirito Santo. Lo facevano i bambini che gremivano la chiesa di San Giorgio degli assiri, nel distribuire a tutto il quartiere ramoscelli d'olivo, simbolo di pace. La gioia era la festa delle bancarelle dei dolci e del Luna park. Con i festoni colorati ad abbellire vie, case e le ottanta chiese. E i ragazzi a corteggiare le ragazze.
Poi, però, scende il buio. Come una premonizione si avvera quello che monsignor Dahdah temeva e mi raccontava. La guerra colpisce con la luna nuova. Quando il cielo è nero pece. Piove dall'alto del cielo. Missili e aerei della coalizione Usa urlano, invisibili, tutto il loro potere distruttivo. La scomoda eredità irachena, passata dalle mani del presidente americano Bush padre, a quelle di Bill Clinton e poi ancora a un Bush figlio, trafigge e incrina l'armonia di pace e semplicità che aveva da sempre tenuto insieme i rapporti tra cristiani e musulmani.
Poi, solo quattro anni fa esplode anche la maledizione criminale del cosiddetto Stato islamico o Daesh e per il cristianesimo orientale caldeo, siro–cattolico, latino, armeno–cattolico, melchita, è un altro duro colpo alla sua sopravvivenza nella patria del cristianesimo delle origini. Chiesa missionaria che ha saputo camminare fino in Cina, dai tempi dell'apostolo Tommaso. La diaspora, oggi, sta dissanguando i cristiani iracheni. Sempre di più sono quelli che partono sparpagliandosi ovunque, ma non più in Medio oriente. Di monsignor Dahdah conservo il saluto profetico: «Pregate per noi».
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