domenica 6 maggio 2012
Tutto intorno riluce bellezza; sulle cime chiazze di neve, trame di verde in tonalità pallide risalgono i crinali e nei prati, ovunque si posi lo sguardo, fioriscono gialli sgargianti. Una giornata di sole già caldo, un vento ancora freddo; ben vestito sbuffo appena comincio ad affaccendarmi, tolgo il giubbotto e mi gela il sudore addosso. Non c'è soluzione. Il fuori e il dentro coincidono e posso solo rimirare la mia inadeguatezza. Mesi fa avevo accettato la proposta di partecipare al convegno sulla vita che si terrà a Roma il 12 maggio; spinto da moto di umana simpatia: vedere, ascoltare persone ed organizzazioni che mai hanno intersecato il mio vivere quotidiano ma hanno contribuito, solo per il fatto di esistere, al mio riposizionarmi nel mondo. Impegni sopraggiunti non me lo permettono ma non si placa un disagio a cui non trovo soluzione, come avessi contratto un debito che non posso estinguere. Non possiedo, non trovo, parole capaci di esprimere l'urgenza e la centralità, sia in ambito intimo familiare che sociale politico, del difendere la vita dei nascenti; ogni parola pubblica, essendo la comunicazione merce d'eccellenza nel contemporaneo, sconta l'impotenza, l'inadeguatezza. Posso solo rifarmi alla mia vita, farne scarno resoconto. Ricordo il giorno dello spoglio nel referendum sul divorzio: vibravo di felicità per una vittoria che sommava, nelle mie aspettative, ogni positività e relegava ad un passato clamorosamente sconfitto un'indistinta tenebra in cui religione, reazione, tradizione tramavano contro la possibile liberazione dell'uomo. Il referendum sull'aborto, che doveva sancire definitivamente l'avvento della nuova società dei diritti, pur nella soddisfazione politica mi lasciò l'amaro in bocca. Nessuna vibrazione intima, anzi un senso di pesantezza. Ci sono voluti anni, l'amaro s'è fatto acidità, s'è impossessato dello stomaco e l'ha perforato, perché potessi guardarmi e guardare intorno me con occhi nuovi. Nessun programma politico, nessun ordinamento sociale, per quanto in una scala che contempla il buono, l'accettabile, il pessimo, il malvagio, può avere ragione della tensione che anima l'uomo. La banalizzazione, lo sguardo sentimentale, la superficialità nell'affrontare gli accadimenti del vivere offrono facili soluzioni che presentano poi conti amari. Una società che fa dell'aborto un diritto civile sanitario è una società profondamente malata e c'è una vena di follia malefica nell'esibire la propria malattia come paradigma di salute pubblica. Il mistero della vita nella sua totalità si rigenera continuamente nel mistero di ogni singola nascita, arricchendosi nel racconto di ogni singola esperienza umana. Ho vissuto ogni giorno degli ultimi anni di vita di mia madre prendendomi cura di lei, tra mille difficoltà quotidiane ho avuto modo di percepire nella sua potenza, miscuglio di tragico e meraviglia, il legame filiale che dall'amore deriva e nell'amore rifluisce; ne sono stato partecipe e testimone. Ho avuto modo di sapere di difficoltà che potevano sembrare insormontabili, di un dolore che annichiliva la mente e il corpo, della volontà cieca sorda e muta di mia madre nell'accettare, come dono, la mia nascita. Tutto un ragionare informato e civilmente educato, rispettoso di parametri medico-sociali di sostenibilità, è miseramente franato lasciando spazio ad un senso di beatitudine così profonda da farmi sicuro: «Io, mamma, comunque ti avrei perdonato». Benefica follia prodotta dall'amore. Bisogna essere vivi per concedersi al perdono, all'amore.
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