giovedì 24 marzo 2022
Se ripenso a quanto hai rischiato a Chernobyl, ringrazio Dio ogni giorno per averti salvato. Il tuo reportage a un anno dall'esplosione della centrale, l'esposizione alle radiazioni e il bruttissimo incidente, travolto in pieno da un camion militare sovietico... Di' la verità Sergio, non hai mai temuto per la tua vita in quella situazione?
«Sono stato molto fortunato, se penso al povero Alfonso, il giovane fonico Rai che mi accompagnò durante le riprese: morì di tumore ai testicoli, una delle conseguenze più comuni della contaminazione. Il fatto di stare per molto tempo accovacciato per le registrazioni, lo aveva condannato. Quanto a me, sono convinto che le mie grane con i globuli rossi, siano un lascito di quel reportage. Senza contare il fatto che c'è stato un momento in cui pensavo che mi amputassero la gamba. Invece, nell'ospedale di Kiev, seppero darmi le prime cure in modo tempestivo. E sì, Ale, confesso di aver avuto paura. E da allora, tu lo sai bene, mi è rimasto il terrore di sedere nel posto accanto al guidatore: a ogni frenata, rivivo quell'impatto con la mia gamba incastrata tra le lamiere».
Cosa hai provato quando arrivasti sul luogo del disastro?
«Sono ricordi nitidi e indelebili. Mi sembrava di essere sulla retrovia di un fronte. Un'esperienza sensoriale inquietante, bardati dalla testa ai piedi dentro camici e cuffie bianche. Quasi fossimo i soli sopravvissuti a quell'ecatombe. Intorno, un deserto di terrore cristallizzato. Tutto era rimasto immobile, come se qualcosa di sovrannaturale, e perciò stesso imprevedibile, avesse congelato anche l'aria fermando il tempo in una fissità mortale impressionante. Ricordo le betulle: erano diventate arancioni e di notte trasparenti, quasi vittime di un sortilegio. Ai loro piedi, un mare di foglie sepolte che – mi spiegò un ingegnere sovietico – sarebbero rimaste radioattive per un numero incalcolabile di anni. Ricordo tre fragole mostruose che furono offerte a me e alla mia troupe. Sembravano nate in un giardino stregato. Non scorderò mai quell'aria innaturale all'interno del reattore: calda da far paura. E il sarcofago poi… una cupola di cemento e bario, di sabbia e piombo innalzata per sotterrare il nucleo della centrale. Un'opera ciclopica: vi lavoravano 30mila soldati operai. In una catena di montaggio velocissima, scandita dai tempi di sicurezza. Anche se oggi, a distanza di tanti anni, quel che riesce ancora a raggelarmi è il ricordo della città morta di Prepyat, a 14 km dal reattore: eravamo lì, immersi nel nulla, quando un brivido magnetico mi corse sulla pelle mentre dal piccolo geiger veniva fuori una serie di sinistri bip».
C'è mai stato un momento in cui ti sei detto: chi me lo ha fatto fare?
«Era un'occasione unica per la Rai e per l'Italia raccontare una pagina di storia così devastante: la nostra fu la prima ripresa tv dopo quella di una troupe sovietica. Cercammo di indagare attraverso un fitto velo di reticenza avvolto dalla convinzione sempre più diffusa che la distruzione di Chernobyl fosse solo una carta giocata dalla glasnost per chiudere una dura partita con il vertice brezneviano della Repubblica ucraina. Da allora, anche i miei sogni cambiarono. Un giorno raccontai a Federico (Fellini, ndr) che durante il mio ricovero nell'ospedale di Kiev sognai di camminare su una corda sospesa tra due palazzi, ma a un certo punto fui assalito dalla paura di precipitare. Mi interruppe e mi disse: "E se quello fosse stato l'inizio e non la fine del viaggio"? E aggiunse: "Non sei curioso di sapere come andrà a finire"?».
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