mercoledì 16 maggio 2012
Nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 1975 La muta di Raffaello e due dipinti di Piero della Francesca, la Flagellazione di Cristo e la Madonna di Senigallia, vennero trafugati dal Palazzo Ducale di Urbino. La notizia fece il giro del mondo non solo per la gravità, ma anche per la stranezza: chi mai poteva pensare di mettere sul mercato quei tre capolavori arcinoti, a meno che non si trattasse di un furto destinato alla contemplazione solitaria di un irraggiungibile emiro? E quale banda di specializzatissimi e spregiudicatissimi ladri poteva aver compiuto l'azzardatissima impresa?A quel lontano fatto di cronaca Massimo Pulini ha dedicato Gli inestimabili (CartaCanta Editore, pp. 192, euro 13,50), indicato come romanzo perché l'autore, apprezzato critico d'arte nonché assessore alla cultura del comune di Rimini, pur designando col loro nome i reali protagonisti della vicenda, cerca di entrare narrativamente nella loro psicologia. Lo snodo è presto detto: il furto, non tanto rocambolesco ancorché meticolosamente predisposto, è stato compiuto da un simpatico perdigiorno pesarese, Elio Pazzaglia, per scommessa con gli amici del bar e per stupire la morosa, se non che, avendo Elio perso al gioco delle carte, i dipinti erano finiti in mano a ricettatori sprovveduti, coinvolgendo anche un probo gallerista. Ma l'affare, andato a vuoto in due tentativi di riscatto da parte dello Stato, si rivelò troppo ingombrante per quegli imbranati, e i dipinti tornarono rapidamente al loro posto. Al processo tutti ebbero lievi condanne e nella storia non fece una gran bella figura il ministro Rodolfo Siviero (1911-1983), pur meritevole per il recupero di moltissime opere d'arte trafugate dall'Italia durante la Seconda guerra mondiale, ma che quella volta sembrò appropriarsi di meriti non suoi.Ma non è qui, o non soltanto qui, l'interesse del libro. Pulini, infatti, intercala in prima persona al racconto del furto le proprie ricerche di studioso alle prese con la «macelleria artistica» che mercanti senza scrupoli compiono sui quadri per renderli più commerciali: smembrano dipinti, oppure da quadri grandi ritagliano la testa di un personaggio, o una parte di paesaggio o una natura morta, ricavandone quadretti più facilmente collocabili. Grande e giusta è l'indignazione di Pulini per questi scempi, e quasi commovente il suo amore per i pittori «minori», ai quadri dei quali, nei musei, talvolta riserviamo un'occhiata per correre subito ai «capolavori». Ma, sostiene Pulini, «la parola inestimabile, come quella capolavoro, non significa quasi nulla. Ha la proprietà di rendere generico ciò che non lo è. Entrambi i termini collocano un'opera d'arte in un empireo che sta a bagnomaria tra la fama e la ricchezza, ma che tende ad appiattire tutti i caratteri individuali che nel tempo l'hanno portata a distinguersi dalle altre». In effetti, il «valore» dei «capolavori» viene molto spesso attribuito dai mercanti, con paradossi imbarazzanti. Pulini ricorda, per esempio, che nell'inventario del 1902, quando la Galleria Borghese venne ceduta allo Stato italiano, l'Amor sacro e Amor profano di Tiziano venne giustamente valutato un milione di lire, cifra astronomica per l'epoca, mentre accanto al Bacchino malato del Caravaggio venne segnata la cifra irrisoria di cento lire.Meno male che esistono persone come Massimo Pulini che sanno andare in estasi non solo davanti a un Piero della Francesca, ma anche a un Barocci, a un Pietro Damiani, a un Simone Cantarini. Non esistono artisti «maggiori» o «minori»: esistono «artisti» e «non artisti».
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