domenica 12 novembre 2006
E' sempre rischioso fare il mestiere degli altri e, peggio, volerlo insegnare ai competenti. Lo ha sperimentato il prof. Carlo Flamigni, il quale, deluso dall"ordinanza della Corte Costituzionale, che aveva dichiarato inammissibile un ricorso contro il divieto di diagnosi preimpianto degli embrioni contenuto nella legge 40, ha accusato (l"Unità, lunedì 5) i politici di «incompetenza», i moralisti di essere «trascinati nel vortice di un pericoloso furore ideologico o, più semplicemente, ipocriti», il Parlamento e la Corte di «spregio delle regole più elementari di uno stato laico» e di «generale asservimento alla morale cattolica». Come se non bastasse e prima ancora di conoscerne le motivazioni, ha poi stabilito che quell"ordinanza «non è il giudizio finale», perché «la Corte non è entrata nel merito» e , quindi, ha cercato di darle una lezione di diritto costituzionale e di insegnarle come si fanno le sentenze: «Dovrebbe mettere ordine, evitare conflitti e contraddizioni, giudicare anche tenendo conto del senso comune dei cittadini» e ha sostenuto che, «in materie che hanno così profonde risonanze affettive, il luogo nel quale si amministra la giustizia dovrebbe comunque essere il mondo in cui tutti noi consumiamo le nostre vite e non l"empireo lontano di una sapienza teorica». Insomma una specie di tribunale del popolo di stampo maoista.La Corte, invece (ma i giornali "laici" l"hanno taciuto) ha dato un giudizio definitivo entrando nel merito del divieto di diagnosi preimpianto.Prendendo a prestito un"affermazione di Flamigni, si può dunque concludere che costui, «essendo la medicina una disciplina con uno statuto scientifico molto modesto», se ne dovrebbe occupare di più, senza rischiare equilibrismi su altre cattedre, da cui rischia di rovinare nel ridicolo.
ECCLESIALESE SÌ O NO?Davvero l"«ecclesialese» " cioè, secondo i critici, l"attuale linguaggio di molti cristiani laici, preti e cardinali (p. es. Tettamanzi al convegno di Verona) " è segno di «povertà culturale», un «gergo curiale, da apparatnik ecclesiale», vale a dire di «una chiesa che parla (solo) a se stessa»? Questo affermano Maurizio Crippa e, a seguire, Gianni Baget Bozzo. Con tutto il rispetto per i due critici del «metalinguaggio da anni Sessanta» e per l"utilità " dove serve " della critica, le loro rampogne (ciascuna un"intera pagina del Foglio, mercoledì 1 e martedì 7) assomigliano a un autogol. Il fatto è che un «ecclesialese» è sempre esistito nella Chiesa come dimostrano certi preti un po" temporis acti, con omelie astratte e piene di sacri formulari prefabbricati e di parenetici luoghi comuni. Il linguaggio si evolve nella Chiesa come ovunque, e anche l"articolo di Crippa è scritto un po" in crippese: vi si parla di «ghostwriter dei documenti» (pontifici), di «Sant"Egidio essenza odorosa del cardinale», di «doverismo», di «millimetrici solchi dottrinali», di «trappole sociologiche» e così via. Dopodiché, come si dice in ecclesialese, "amici come prima"?
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