mercoledì 4 agosto 2004
Invece di tormentarti incessantemente per le colpe commesse, devi applicare la forza d'animo usata per questa autoaccusa all'azione che sei chiamato a esercitare sul mondo. Non di te stesso ma è del mondo che ti devi preoccupare. Era nato a Vienna nel 1878 e subito si era distinto per la sua passione sionistica che lo condusse a vivere a Gerusalemme dove morirà nel 1965. Martin Buber fu, sì, anche un filosofo ma soprattutto un cantore della cultura e della spiritualità ebraica mitteleuropea, incarnata dalla corrente mistica dei Chassidim, i "pii" per eccellenza. E' questo afflato a rendere anche il suo pensiero tutto screziato di appelli e di temi religiosi morali, come accade nel passo che oggi proponiamo per la nostra riflessione. Intendiamoci bene: ai nostri giorni, purtroppo, non è certo facile imbattersi in persone "tormentate incessantemente per le colpe commesse", anzi, il rimorso sembra essere stato seppellito sotto un cumulo di banalità e di distrazioni e forse anche sotto non poche sciocchezze "psicologiche". Tuttavia ha ragione Buber a combattere una spiritualità tutta rinchiusa in se stessa, aggrappata ai propri problemi e talora anche alle proprie fisime, e incapace di allargare lo sguardo oltre il piccolo cerchio dell'io per affacciarsi sui problemi degli altri. La vera spiritualità, poi, non è da declinare solo al negativo come astinenza o pentimento per il male ma è per eccellenza donazione, impegno, amore. Per certi versi era pertinente l'accusa di Pasolini: «Peccare non significa fare il male; non fare il bene, questo significa peccare». E' questa la strada da imboccare: uscire da se stessi e incamminarsi verso il mondo.
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