martedì 19 febbraio 2019
A ognuno la sua parte. Voi ci mettete le armi, i "Mirage", i droni e le ditte per garantire la sicurezza dei regimi e noi ci mettiamo le guerre. Così anche il Sahel gioca un ruolo non trascurabile nell'economia-mondo che tutto misura in Prodotto interno lordo. I gruppi armati che continuano ad aumentare, fare e disfare alleanze, occupare territori per poi svanire nel nulla, hanno raggiunto e forse superato ciò che da loro ci si attendeva. Carestie, spostamenti di popolazione, nuove armate per fronteggiare gli attacchi sempre più imprevedibili e soprattutto soldi di cui i fabbricanti di armi e i grandi capi militari sono i principali beneficiari. Crescono in modo preoccupante le zone a rischio e in stato di eccezione che includono il coprifuoco, l'abbandono delle motociclette per gli spostamenti e il controllo sulle attività economiche dei contadini. Dalle milizie di autodifesa tradizionali si passa a gruppi paramilitari ad appartenenza comunitaria per terminare con le operazioni di rastrellamento delle forze regolari governative. A queste ultime si aggiungono i corpi di élite, la costituzione di nuovi eserciti congiunti e dell'immancabile presenza dei caschi blu delle Nazioni Unite. Si stima che l'Africa sia il continente nel quale viaggiano più armi nel mondo. Questo tipo di mobilità sembra essere incoraggiata: armi e mercanzie passano le frontiere e le persone sono incarcerate. Il traffico di armi, secondo il rapporto di Small Arms Survey, uccide in Africa 45mila persone all'anno e circolerebbero oltre 30 milioni di armi leggere a Sud del Sahara. In Africa Occidentale le armi leggere sono oltre otto milioni. Nessuno potrà negare che il nostro continente assume con autorevolezza la parte che gli è stata assegnata dagli imperi che, da sempre, prosperano con il commercio di armi. In una recente Fiera sulla Sicurezza tenutasi ad Abidjan, capitale economica della Costa d'Avorio, l'Africa ha voluto prendere la sua parte di bottino. Lentamente il continente si muove e non ci sarebbe da sorprendersi se il profitto crescerà con la collaborazione di tutti. Anche l'Africa, dunque, vuole il suo "posto al sole", e non c'è da stupirsene. Solo che l'anno scorso, secondo il rapporto di Ocha, l'agenzia onusiana che coordina l'assistenza umanitaria, nel Niger sono state uccise 107 persone e altre 97 sono rimaste ferite in 184 attacchi condotti da gruppi armati. A questi ci sono da aggiungere 22 conflitti intercomunitari e la "scomparsa" di 131 persone. Secondo l'Agenzia almeno 2,3 milioni di persone hanno bisogno di assistenza, specie alimentare, provocata dallo spostamento delle popolazioni. I presidenti e le alte autorità sono ben protetti da contingenti stranieri del posto, veri Stati negli Stati, che offrono garanzie di incolumità e di affidabilità a regimi spesso impopolari. La povera gente, invece, per salvarsi scappa. Almeno 300mila profughi nella zona di Diffa, nei pressi del lago Ciad, oltre 52mila nel nord e nell'est del Paese. A questi si aggiungono i circa 60mila rifugiati del vicino Mali in preda a turbolenze senza fine malgrado o grazie agli interventi militari. In queste zone la violenza e le sofferenze sono inenarrabili. Si bruciano scuole, si impone l'arabo come lingua franca che nessuno capisce e vengono saccheggiate le case. Lo stesso Dio, o meglio la sua caricatura, è preso in ostaggio da una violenza che non ha né patria né futuro. Ci si barcamena come si può, domandandosi come diavolo si sia potuti arrivare in tale imprevisto mondo del Sahel. Non c'è motivo, dunque, per cui queste guerre dovrebbero terminare presto, vista la convergenza di interessi di coloro che contano sul campo di battaglia. Non c'è dubbio: siamo un laboratorio interessante da più punti di vista e chi avesse dubbi in proposito potrebbe azzardare una visita guidata alla capitale Niamey, che sforna superstrade e grattacieli per gli ospiti di riguardo a venire. Eppure interrompere questa spirale bellica non sarebbe poi così difficile. Basterebbe chiedere alla sabbia come si fanno le rivoluzioni.
Niamey, febbraio 2019
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