giovedì 4 novembre 2021
Ci siamo abituati ad accettare che spiagge, mare, fiumi, i boschi e campagne che frequentiamo siano abitate da sacchetti, bottiglie e packaging di plastica. È quello che i geni dell'industria alimentare hanno battezzato Fast moving consumers food (Fmcf), cioè cibo per gente che si muove in fretta. Nel clima illusorio del G20 e di Glasgow dimentichiamo che le industrie della plastica vedono un roseo futuro con una triplicazione dei loro prodotti al 2050. A fronte di una presunta politica di riciclaggio a cui costringono utenti e amministrazioni, solo il 9% della plastica prodotta finora è stata riciclata. Il resto viene bruciato producendo CO2 o sotterrato nei Paesi “in via di sviluppo” oppure semplicemente inalato dal nostro organismo. Le più grandi società di Fmgc (Coca Cola, Nestlè,
Pepsico, Danone, Mars, Uniliver, Procter&Gamble, Colgate etc etc ) sono responsabili come produttori di packaging di emissioni annuali di CO2 pari a quelle di 30 centrali a carbone o di 40 milioni di auto o di due milioni di riscaldamenti domestici.
Sono dati ufficiali – anche se tutta la filiera della plastica ha molti punti oscuri – (riportati da un documento Greenpeace del settembre 2021, “The Climate Emergency Unpacked” (“L'emergenza climatica sballata, ovvero come le compagnie di beni di consumo stanno sostenendo l'espansione delle industria petrolifera”). Di fronte a questa aggressiva espansione c'è ben poco da sperare rispetto all'obiettivo di limitare a un grado e mezzo l'innalzamento della temperatura del globo. I “grandi della Terra” sono piegati di fronte alle ragioni dell'industria. Bea Perez, responsabile del settore sostenibilità della Coca Cola, ha candidamente dichiarato che la sua compagnia non ha rinunciato alla produzione di single-use (usa e getta) di bibite perché i consumatori le vogliono e perché le possono richiudere e sono leggere da trasportare. Quindi invece di andare verso una limitazione si va verso una moltiplicazione delle pet-bottles, delle bottigliette.
In questa tragedia recente e inarrestabile (il 50% della produzione di plastica è avvenuto dopo il 2000!) gli unici che possono fare qualcosa di efficace sono i sindaci e gli amministratori locali. Più Comuni plastic-free ci sono in un Paese e meno la gente sarà ricattabile dalle intenzioni delle big-companies. Scaricare la responsabilità sul singolo consumatore o sul riciclaggio familiare è come cercare di fermare un'auto in corsa con una siepe di margherite. Una volta di più ha ragione Greta Thunberg quando ci avverte di non farci illusioni sulle buone intenzioni dei politici.
L'Italia è asservita alle logiche delle big companies e non pone loro condizioni perché non inquinino il Bel Paese (non solo CO2, ma la presenza infestante della plastica nel nostro patrimonio naturale e culturale) e non ne limita la pubblicità, laddove una buona comunicazione potrebbe avvertire che alcuni prodotti nuocciono gravemente all'ambiente e alla salute. Oggi davvero la sponda dei sindaci potrebbe fare quello che il governo centrale non è in grado di fare. Mai come ora l'emergenza è in mano loro e possono diventare alleati preziosi di un cambiamento radicale. Cosa che dal punto di vista del consenso – anche elettorale – conviene anche ai meno preparati e coscienti della grave crisi in cui viviamo.
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