venerdì 26 settembre 2003
Un tempo c"era solo la polenta e l"iconografia della povertà era intrisa di queste immagini. Chi si nutriva solo di polenta andava incontro a malattie, e quel piatto rendeva ancora più importante il desiderio della carne. In tante zone di montagna, ancora oggi, si narra di quella famiglia che cenava con l"acciuga appesa a un filo, sulla quale i commensali strofinavano la loro fetta che altrimenti avrebbe avuto un profumo sempre uguale. La farina di mais per la polenta, dagli Anni Sessanta in poi, era diventata una commodities, per cui il velo dell"omologazione si distese anche su questo piatto povero per eccellenza. Cosa faceva una polenta differente? Il paiolo di rame? La lenta mescolanza con il cucchiaio di legno? Oppure l"affumicatura che derivava dalla legna che scaldava il pentolone? Immagini che abbiamo fatto in tempo a vedere ancora, in un agriturismo dell"ossolano, prima che le unità sanitarie locali arrivassero a piastrellare tutto e a imporre, a loro modo, una nuova omologazione ispirata al sacro fuoco dell"igiene.Da cinque anni tuttavia, quella che era una commodities è diventata un prodotto ricercato. E gli esempi di varietà di mais antiche salvate dall"oblio oggi sono tante e fanno la differenza. L"ultimo assaggio è stato in Val Canonica, con la farina della varietà Belgrano. Il mais di Felice Garavelli della varietà Marano è straordinario e la polenta, a poco a poco, ha cominciato ha rientrare nei menu dei ristoranti importanti. Un piatto che viene fatto con la sua farina è ad esempio l"agnolotto ripieno di polenta da accompagnare ad un sugo di lepre.Se andate a Cossano Belbo, appena dopo gli sguardi sui filari di Moscato, Felice Marino, settantenne, batte ancora le sue antiche mole per macinare il grano "Otto file" detto anche mais del Re. Potremmo continuare ancora, toccando ogni regione, per raccontare una rinascita tutta italiana che, nel gusto e nelle varietà della campagna, ha le basi della sua specificità.
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