mercoledì 20 marzo 2013
Da Gertrude Stein abbiamo imparato che la differenza tra la poesia e la prosa è che la poesia è basata sul sostantivo, mentre la prosa lavora sul verbo. Ma allora com'è che un romanzo come Padri, di Marco Pogliani (Mondadori, pp. 276, euro 18,50) è tutto giocato sui sostantivi, eppure è un romanzo?Pogliani scrive frasi brevi, soggetto, predicato nominale, apposizioni, quasi degli Sms, sembra un po' la Neoavanguardia (sembra), che peraltro lui non ha attraversato sia per l'anagrafe (siamo nel cinquantenario della Neoavanguardia, e Pogliani è del 1957), sia perché il neo-scrittore (Padri è il primo romanzo) si è dedicato a studi di Storia medievale e poi, quasi subito, agli uffici stampa e relazioni esterne di grandi imprese e adesso ha un'agenzia di comunicazione tutta sua. Assaggiamo il romanzo Partita di Antonio Porta (1935-1989) che della Neoavaguardia è fra i migliori, anzi, il migliore: «mentre tutti coloro che entrano devono saper rovesciare istantaneamente l'impulso di avvicinamento, arretrare anziché avanzare, rinunciando ad un passo in avanti apparentemente risolutore per scegliere in ogni occasione l'indispensabile dietro-front e i cento passi all'indietro, dovendosi convincere subito che il punto d'arrivo... eccetera». Pogliani: «I primi ricordi sono pezzi di vetro. Vetri emergenti dalla sabbia della memoria. Alcuni levigati. Tondi. Caldi da toccare. Altri tagliano ancora. Altri non si trovano più. Sono in fondo. Sotto. Emergono all'improvviso. Quando vogliono loro. Poi scappano di nuovo. A nascondersi. Sotto. Non so quanti ce n'è. Sotto».Ecco. Il bravo Porta scrive per sentirsi mentre legge, Pogliani scrive per guardarsi dentro e il lettore, a sua volta, dentro si legge. Prosa, poesia? Lo stile nominale è così urgente che Pogliani non può fare a meno, di tanto in tanto, di allineare in colonna le sue brevi frasi, come poesie. E questa è la forza di un romanzo bellissimo, forte come le parole, forte come la vita. Perché è la storia della famiglia Pogliani, famiglia di Milano, il nonno che tagliava tomaie (l'autore preferisce "tomaje") per i migliori calzolai di Milano, il padre, ultimo di sedici figli, cresciuto su da solo, impiegato quasi adolescente, poi la guerra a guidare camion, poi la carriera in una fabbrica di cosmetici, via via sulle montagne russe del mercato, delle multinazionali americane, e sempre col puntiglio di fare, di lavorare, di crescere la famiglia, di fare del bene agli altri perché sempre profondamente cristiano, come tutti in famiglia, sterminata famiglia di cugini, cognati, suoceri, zii, tutti insieme con don Enrico, cugino del padre, a recitare il Rosario intero, tutte e tre le parti, alla vigilia del giorno dei Morti, per tutti i loro morti, genealogia generosa e generante, davvero albero genealogico che si espande sempre più su, e si allarga nei rami, perché le radici sono forti, profonde e feconde.È il romanzo di "una" famiglia, che diventa romanzo "della" famiglia. E in mezzo a tutti quei parenti c'è la figura del padre, del padre di Pogliani che diventa, per il lettore, archetipo del padre. Il padre intorno a cui ruota la famiglia perché, di generazione in generazione, si formino nuovi padri. Il padre che presiede i riti domestici dei pasti, delle domeniche, compresa la partita del Milan, e le gite in montagna e la vacanza al mare. Il padre che rispetta la libertà del figlio, che si rispecchia in lui pur sentendolo diverso. Il padre che è tale perché ha una sposa, una moglie che è madre. Una moglie che egli sente "come un lui migliore" e questa mi sembra la più bella delle dichiarazioni d'amore coniugale.
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