sabato 1 dicembre 2018
Le periferie delle nostre grandi città sono oggi, molto spesso, il simbolo più evidente del fallimento della politica. Il senso di abbandono, di solitudine e di rabbia che chiunque di noi può cogliere vivendoci o semplicemente attraversandole è legato ormai nell'immaginario collettivo alla rassegnazione per l'inevitabilità di un "destino minore", di una condizione di inferiorità che nessuno vuole e può cambiare. Eppure sono molto lontani gli anni del boom demografico e dell'edilizia popolare, in cui poteva essere ritenuto accettabile sacrificare la qualità della vita delle periferie alle "magnifiche sorti e progressive" dello sviluppo economico impetuoso del Paese. Oggi possiamo solo migliorare ciò che abbiamo costruito.
La gravità e la cronicità del fenomeno richiederebbero un piano strategico fatto (per esempio) di idee nuove di sviluppo urbano, di finanziamenti capaci di sommare fondi comunitari, nazionali e locali, di creatività da incentivare attraverso concorsi internazionali dedicati a giovani talenti, di testimonial positivi che provino a restituire luce dove oggi c'è solo il buio del degrado. Ma nulla si muove, almeno in Italia. Nessuna strategia a livello di Governo, nessuna buona pratica credibile a livello locale, nessun moto dell'opinione pubblica che provi a sollevare la "questione periferie". La notizia più recente è il "ritorno al futuro" del Governo, che dopo l'iniziale scelta di cancellare il finanziamento del Piano Periferie di Renzi-Gentiloni sarebbe tornato sui suoi passi. Ma siamo ancora fermi al box, alle pie intenzioni contenute nei documenti di bilancio.
Eppure oggi non c'è nulla di più pericoloso, almeno dal punto di vista degli equilibri sociali, che ignorare una divisione così netta tra due "caste urbane" che si incrociano solo nelle passeggiate domenicali, vivendo nello stesso macro-luogo vite così terribilmente diverse. Come ha dimostrato qualche anno fa la rivolta delle banlieu a Parigi, stiamo coltivando nelle nostre periferie un terreno infido fatto di ingiustizia sociale e di povertà economica e culturale, di abbrutimento e di negazione della convivenza civile. È una situazione insostenibile, che presto o tardi mostrerà in modo eclatante la sua pericolosità.
Meglio accorgersene per tempo, trasformando un grave problema in straordinaria opportunità: quella di fare delle nostre metropoli la nuova frontiera dello sviluppo economico, sociale e culturale. Promuovere la bellezza e il decoro delle periferie non richiede necessariamente grandi finanziamenti: riqualificare le periferie ha un costo economico mediamente più basso rispetto ai luoghi centrali delle grandi città. Impone piuttosto il coraggio di contaminare capitali, esperienze e talenti, scommettendo sulla voglia di riscatto di giovani creativi, di imprese innovative, di cittadini che non si sono mai rassegnati all'emarginazione. Ma almeno i primi sassolini di questa potenziale valanga devono partire da chi governa a livello nazionale e locale. Il resto, naturalmente, verrà.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: