martedì 31 luglio 2018
Comunque finiranno le elezioni del nuovo Parlamento europeo, a maggio dell'anno prossimo, i futuri vertici di Bruxelles dovranno misurarsi subito con un importante test sulla loro reale volontà di dare nuovo impulso al futuro dell'Unione: l'avvio concreto dei negoziati per l'ingresso nella Ue di Albania e Macedonia, fissato il mese scorso dai Capi di stato e di governo per giugno 2019. I due Stati balcanici hanno dovuto pazientare a lungo prima di tagliare questo traguardo preliminare, scontrandosi fondamentalmente con una specie di "stanchezza da allargamento" dei Paesi membri, a cominciare da alcuni fondatori come Francia e Olanda.
Il sentimento in realtà è condiviso un po' dovunque in tutto il Continente. Visti i deludenti risultati che l'Unione sta dando ormai da tempo, soprattutto in termini di coesione interna e di effettivo spirito solidaristico, molti si domandano che senso ha far entrare nuovi protagonisti, a costo di estenuanti trattative, preludio a loro volta di ulteriori inevitabili liti, su qualsivoglia dossier, a 30 o più voci. Oltre che con la "congelata" Turchia, infatti, il negoziato di adesione è aperto da più di quattro anni e avanza stancamente anche con Serbia e Montenegro (si parla di ingresso effettivo non prima del 2025), mentre bussano alla porta come "aspiranti" Kosovo e Bosnia-Erzegovina.
Eppure quanti ancora credono davvero nell'ideale unitario dovrebbero riflettere su questo addensarsi contemporaneo alle porte dell'edificio comune di nazioni, più o meno giovani, racchiuse tutte in un'area storicamente cruciale come quella dei Balcani. L'antica "polveriera d'Europa" ha da sempre – fino all'ultimo sanguinoso decennio del secolo scorso – mostrato al Vecchio Continente che il suo destino di pace si gioca proprio in quella frastagliata propaggine orientale del suo territorio. E che soprattutto lì vanno investite le migliori risorse di intelligenza e di sagacia diplomatica, oltre che di generosità residua.
In una prospettiva di rilancio del grande progetto della "casa comune", un'accelerazione concordata del dialogo con candidati presenti e futuri dello scacchiere balcanico, anziché come una fuga in avanti sconsiderata e utopistica, andrebbe valutata come una grande sfida storica di inizio millennio, da raccogliere in nome del vero bene comune di tutti i popoli coinvolti. Tra alcuni di essi, come è purtroppo ben noto, persistono tensioni e aspri risentimenti di natura etnica, religiosa e culturale. La tentazione di soffiare sul fuoco delle discordie è sempre latente ed ha molti ispiratori, come dimostra l'omicidio a inizio anno di un leader serbo-kosovaro di orientamento moderato e disponibile al dialogo. E come fanno apertamente intendere le interferenze e le pressioni di Russia e Turchia, che tutto vorrebbero meno che un'area balcanica pacificata e saldamente inserita nell'orbita europeo-occidentale.
Tutto ciò non significa sottovalutare, o peggio voler bypassare, le regole giustamente severe alle quali i Paesi candidati a entrare nella Ue devono sottostare, in materia di diritti, legislazione, libertà civili ed economiche. Ma una gestione al tempo stesso consapevole e audace dei negoziati, in corso o da aprire, dovrebbe poter prevedere un appello solenne e un invito a tutti gli attori in campo a
un impegno straordinario, a uno sforzo generale e unitario. Cominciando dalla risoluzione, facilitata da una seria e intensa opera di mediazione comunitaria, dei contrasti interni ai singoli Stati e dei conflitti etnico-religiosi tuttora aperti.
Nell'era dei nazionalismi risorgenti e delle sempre più inquietanti spinte identitarie, quello di un ampliamento accelerato dei Paesi membri può apparire come un maldestro paradosso. Ma più passa il tempo, più crescono le spinte a dividersi, a tornare magari alla diplomazia delle cannoniere, più dovrebbe apparire chiaro che servono coraggio e lungimiranza. Per l'Europa è l'ora di riprendere il largo. Il piccolo cabotaggio serve solo a infrangersi sugli scogli.
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