mercoledì 4 marzo 2020
Penny Wirton è il protagonista di un racconto di Silvio D’Arzo, un ragazzino sfortunato che parte alla ricerca della propria identità. E a Penny Wirton è intitolata la catena di scuole in cui si insegna l’italiano agli stranieri, fondata dallo scrittore Eraldo Affinati con sua moglie Anna Luce Lenzi, studiosa, appunto, di Silvio D’Arzo, il promettente scrittore morto di leucemia a trentadue anni nel 1952 (l’esigente palato di Eugenio Montale se n’era accorto). Ancora una scrittrice, Laura Bosio, è la responsabile della scuola Penny Wirton di Milano, ospitata nei locali messi a disposizione da don Giuseppe Grampa, parroco di San Giovanni in Laterano (anche Milano c’è una chiesa con questo titolo). È un’impresa di volontariato, di purissimo volontariato. Una scuola senza muri è il libro di Laura Bosio che descrive questa perdurante avventura (Enrico Damiani Editore, pagine 136, euro 14). Non è un libro di sociologia, fortunatamente: da scrittrice, Laura Bosio narra le microstorie di alcuni allievi, arrivati a Milano dopo peripezie che hanno pudore a raccontare. En passant, si viene a sapere che gli insegnanti sono quasi centoventi, per quasi trecentocinquanta allievi che ruotano nell’anno: allievi di ogni colore e di ogni età, ragazzi e ragazze, ma anche adulti che conoscono la difficoltà di trovare un lavoro soprattutto quando non si conosce neppure l’italiano. E gli insegnanti? «Sono pensionati, studenti universitari, ex docenti e insegnanti ancora in attività, casalinghe e nonne con figli e nipoti cresciuti, giornalisti, architetti, ingegneri, grafici, registi, musicisti, impiegati, pubblicitari». Il metodo è il faccia a faccia, a tu per tu tra singolo allievo e singolo insegnante. Una volta Alì, «somalo, alto, un po’ scontroso, mente prensile, aveva detto a Orietta, la sua fantasiosa insegnante, di aver sentito che a scuola siamo tutti volontari. “Cosa vuol dire volontario”?». Orietta imbastì una spiegazione un po’ imbarazzata. «Alì ascolta serio, poi sintetizza: “Vuol dire che nessuno di voi è pagato per quello che fate?”. “No”. Alì è pensieroso. “E perché lo fate?”». Le domande vere non possono avere riposta. Idowu è nato in Ghana. «Un giorno, all’inizio della lezione, aveva regalato al suo insegnante una mela. Non l’aveva mangiata a pranzo, al centro d’accoglienza: l’aveva tenuta per lui. Fausto, che si commuove più di me quanto si tormenta e si infuria davanti a un’ingiustizia, non la smetteva di ripetere: “Vedi, finché esistono cose come questa il mondo è salvo”, e si rollava una sigaretta, “è salvo”». Noi commentiamo: finché esistono scuole come la Penny Wirton, l’apocalisse si allontana. Un passaggio fondamentale è la scoperta del verbo essere, che in alcune lingue non ha equivalenti. Una frase come «Carola è bella» si tradurrebbe, per esempio in una lingua libica, «Carola bella». Esercitazione: «“Ciao, mi chiamo Laura, e tu?” Rashid risponde esitante: “Io sono gambiano”. E finalmente sorride. Io sono. Ci sia o no nella sua lingua, quell’“io sono” ora esiste. L’io che lo toglie dall’anonimato, dalla massa, l’io maltrattato, violato disconosciuto, si ricava uno spazio libero nella sua mente». Rashid ha scoperto, con la metafisica, la sua identità.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI