domenica 30 marzo 2008
Vengono i brividi a leggere un titolo così: «Il diritto di decidere anche a 15 anni». In antilingua decidere (in latino de-cædere = "troncar via") vuol dire uccidere. L'ha scritto Corrado Augias su La Repubblica (martedì 25) a proposito della ragazzina di Pordenone che, al suo secondo figlio, si è dovuta rivolgere a un'avvocata per resistere alla volontà (poi rientrata) dei genitori di farla abortire. Da gelido guru della laicità laicista Augias sentenzia: «Sappiamo solo di non poter obbligare una ragazza ad abortire se non vuole. Così come difenderemmo il suo diritto di abortire se questa fosse la sua volontà». Dunque partorire o abortire hanno il medesimo valore, sono solo una questione di diritti. Dunque il dramma di questa bambina, che si è vista sottrarre, per darlo in affidamento a chissà chi, il primo figlio avuto a 13 anni dallo stesso "fidanzato" (ne ha 19) e che ora non vuole perdere anche il secondo, si riduce a una questione di leggi. Dunque la relazione tra madre e figlio si riduce a un articolo di legge. Ma che cos'è una madre, anche se ragazzina: un contenitore di diritti? E un figlio: un corpo di reato su cui un giudice si allena? Oppure un oggetto di diritti, qualcosa su cui esercitare dispoticamente una volontà: ti tengo, ti do a un altro, ti butto in un bidone di rifiuti ospedalieri? Nel pensiero di Augias non vedo le persone, i doveri, gli affetti, la solidarietà, il "padre del concepito" (cfr la legge 194), i nonni (che paiono soltanto parte civile in un caso giudiziario), la società che sembra essere composta soltanto di giornali e giornalisti, di cui qualcuno strascrive ciò che gli frulla in testa senza un afflato di amore e di paternità verso una ragazzina che, se non è esemplare nei comportamenti, è pur sempre una persona, per di più, tutto sommato, innocente. La più matura, fra tutti costoro, mi pare proprio questa madre-bambina: «Io credo " ha detto " in Dio e nei principi della Chiesa. Sono stati proprio i miei genitori ad insegnarmi che un bambino non si può uccidere». Dopo il primo figlio, la storia con il suo ragazzo non è finita: «Abbiamo continuato a vederci, ad amarci, ma soprattutto a parlare di quel bimbo che ci era stato negato. La felicità è tornata nel mio cuore. Abbiamo cercato un altro figlio per metabolizzare la perdita del primo. Adesso io e il mio fidanzato vogliamo allevare e amare il bimbo che porto in grembo. Non sopporterei un altro allontanamento né un aborto». Questo racconto l'ha riferito la stessa Repubblica (domenica 23), che, però, non lo ha capito. Forse perché non era stato fatto nel linguaggio dei diritti.

IL MAMMO BARBUTO
I giornali hanno riferito che, nell'Oregon, in una famiglia di piccoli commercianti, il marito sta per partorire una bimba. Il marito? Sì, è una storia di gender: una volta era donna, poi si è sentita uomo, è riuscita a farsi tagliare i seni e crescere la barba, ma ha conservato l'apparato riproduttivo femminile. La sua "compagna" non può procreare e allora lui (lei) si è fatto (fatta) inseminare e ora i giornali lo (la) chiamano «il mammo». Forse è una bufala, ma Liberazione esulta (giovedì 27) e lancia la sfida: «Che cosa succederà al mostro immaginario e all'idea che abbiamo della maternità?» Niente, perché non c'è transgenderazione che tenga: chi era donna, donna resta. Anche se barbuta.
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