mercoledì 19 marzo 2014
Ogni anno, seguo il venerdì santo, quando si affronta la via crucis al Colosseo, in mondovisione. Il luogo storicamente tremendo, i canti liturgici ripetuti di stazione in stazione e il legno portato, hanno un'efficacia comunicativa senza pari. Il buio eterno della notte, respinto dal tratteggio della luce delle cere, sembra il cielo venuto a trovarci. Pare di sentire, dal fondo dell'imbuto del Colosseo, l'appetito dei leoni, vedere il rosso del sangue e il bianco della santità. Ricordo quando Giovanni Paolo II era conciato da sembrare lui un martire dopo il primo assalto dei leoni alla sua persona. Ma quello che mi inquieta, ogni anno, sono i testi dell'autore che viene letto. Mentre i semplici hanno il dono della semplicità con i raffinati qualche problema c'è. Ho in mente la via crucis del grande Mario Luzi. La parola scelta confeziona una tessitura di gran pregio ma un po' esangue, come se mancasse il tutto tondo necessario alla vicenda. Se Gesù Cristo ha scelto come padre un falegname e non un bancario, ci sarà un motivo che, credo, nella via crucis dovrebbe avvertirsi. Sarebbe andato benissimo un autore come Giovanni Testori, artefice di quelle tante teste mozzate del Battista. C'è fame di vigore nella scrittura. La via crucis è una buona provocazione per la lingua.
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