martedì 25 febbraio 2020
«Se io fossi davvero uno scrittore dovrei essere capace di impedire la guerra»: questa sentenza di Elias Canetti (La coscienza delle parole, trad. it. Milano 1984 p. 385), anziché rivelare un atteggiamento di boria e di arroganza, in verità denuncia da un lato la responsabilità dello scrittore e dall'altro il potere della parola. Lezione già antica, questa. Gorgia (V - IV sec. a. C.), principe dei Sofisti e maestro di incantamenti verbali, dimostra che la parola, da lui definita «un potente sovrano», consente di vincere anche cause manifestamente deboli, come riscattare una donna screditata come Elena (Elogio di Elena 10); Lucrezio (I sec. a. C.) dichiara che Epicuro ha sconfitto mostri interiori ben più potenti di quelli mitologici uccisi da Ercole, e lo ha fatto con le parole, non con le armi (dictis, non armis): parole di verità (veridica dicta) che hanno posto fine alla brama e al timore (finem statuiti cuppedinis atque timoris); Cicerone (I sec. a. C.) tra i molteplici benefici del buon uso della parola annovera la fine di innumerevoli guerre (plurima bella restincta). La stessa conclusione di Canetti: «Alla situazione che ha poi reso la guerra davvero inevitabile si è arrivati per mezzo di parole, parole su parole usate a sproposito. Se così grande è il potere delle parole, perché esse non dovrebbero essere in grado di impedire la guerra?».
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