mercoledì 15 maggio 2019
Alla fine di maggio del 2004 andai a Palermo. Trovai la città dipinta di rosa e con le tracce di una festa grande non esaurita, pronta a ricominciare, come un San Silvestro che vuole consumare anche il Capodanno. Uno spettacolo, davvero, anche perchè le tante bandiere, bandierine e gli striscioni, insieme ai giornali aperti come vetrine, salutavano il ritorno del Palermo in Serie A con quella sparata di rosa prevalente sul nero che era davvero un messaggio di felicità. Aspettai ore davanti alla “Favorita” (ora dedicata alla memoria del mio nobile amico Renzo Barbera) finché un piccolo corteo di auto scarico in mezzo a una piccola rappresentanza di popolo Maurizio Zamparini. Il presidente del Palermo, il Doge veneziano aveva appena colto il frutto della sua intuizione e del suo lavoro ricostruendo un sogno che per anni era stato un incubo. Pensai a Renzo: «Non è il tuo stile – gli dissi mentalmente – ma va bene lo stesso». Un anno dopo quei colori, quei drappi – sdruciti – quelle bandierine, sbiadite, c'erano ancora. Adesso la città è come spenta, non c'è rabbia, almeno quanto uno se l'aspetta, neppure rassegnazione, la retrocessione in C mentre stavi riassaporando il ritorno in A, appena 3mila a vedere Palermo-Cittadella, è una mazzata non al Palermo calcio di Maurizio Zamparini ma alla Palermo di tanta gente che con un po' di pallone altolocato stava meglio. Ho sempre pensato che il calcio abbia ragion d'essere se è abbinato all'allegria, risultato finale di un percorso che può essere anche accidentato, sconfitte, pareggi, vittorie, piccoli drammi, finte tragedie sanate dall'urlo del gol, come quando alla Favorita c'era “Toni bomber”, tanto per dire. Ho sempre pensato che il calcio debba esser anzitutto un gioco, forse anche un business realizzato per costruire un gioco più bello. Non è più cosí: mi guardo intorno, ascolto, leggo, il mio mondo particolare è diventato come quello che ci sta intorno, una continua esibizione di malessere e odio che spesso tracima dal web. I titoli sul Palermo affondato sono il top, ma qualcosa non va neppure nella vittoriosa Torino, per non dire Milano, Roma, Firenze... Mi consolo, all'improvviso, dopo aver dubitato anche della lealtà di certi avversari, con la clamorosa affermazione del “mio” Bologna, l'unica Buona Notizia che mi ha raggiunto nelle ultime ore. E ho ripensato a un convegno milanese organizzato qualche tempo dopo la morte di Candido Cannavò, il direttore della Rosea con il quale avevo condiviso tanti anni di mestiere talvolta bisticciando (in prima pagina) spesso concordando sull'esito finale del nostro lavoro: divertire. Allora un altro collega che non c'è più Daniele Redaelli, mi fece ritrovare con l'allora direttore della Gazzetta, Carlo Verdelli, per parlare di un sogno di Cannavò che sarebbe stato bello realizzare: il Giornale delle Buone Notizie. Cairo ci prova sul Corriere della Sera), ma il nostro, è un progetto rimasto nel pensiero, perchè qualcuno dice che le buone notizie non si vendono. E intanto, con quello che passa il convento in quest'Italia intristita e avvelenata in cui i giornali non si vendono più. E il calcio, il mio calcio, non diverte più Sí, emoziona, eccita, ma quanto sono rari i sorrisi.
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